Alla guerra per un avverbio. L'ha pronunciato, non l'ha pronunciato? Manca che si interpelli il Var, studiando il labiale, intanto per una settimana pezzi della magistratura hanno messo sul banco degli imputati il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, con un'accusa velenosetta: avrebbe detto, a Firenze, che i «giudici non sono soggetti alla Costituzione ma alla legge». Lui ha replicato che si erano persi per strada quell'avverbio, solo, che offriva una lettura assai più ragionata e meno occhiuta dell'espressione incriminata: «I giudici non sono soggetti solo alla Costituzione ma anche alla legge». Niente da fare, dalla Stampa al Manifesto, è stato un susseguirsi di articoli indignati su Pinelli che vorrebbe avere i magistrati asserviti al legislatore.
Oggi invece, come è noto, vedi querelle sui migranti, interpretano e, anzi, sono loro a legiferare sul legislatore con sentenze creative. Si spostano e si rispostano i paletti al confine fra politica e magistratura e se uno prova a ripiantarli dove erano prima, subito diventa un bieco censore reazionario.
Un attimo: se quelle stesse cose le dice il Quirinale la frittata cambia e non c'è avverbio che tenga. Anzi, arriva una sacrosanta standing ovation. Cosa ha affermato Sergio Mattarella? Ha chiarito che i giudici sono «soggetti soltanto alla legge» e al rispetto «dei loro limiti».
In controluce, le stesse parole di Pinelli. I limiti. Dove sono?
Mattarella ricorda che c'è una frontiera che non deve essere oltrepassata.
Il magistrato non può saltare la norma dietro lo scudo nouvelle vague dei sacri principi costituzionali. Anzi, restare ancorati alla profondità della legge è il modo migliore per valorizzarne autonomia e professionalità. Sostantivi che pesano. Più dell'avverbio sbandierato per aprire le ostilità.
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