Nella partita europea c'è una parola che dimostra la distanza tra l'area di sinistra, dai popolari e quella parte della destra che va sotto il nome di conservatori: pragmatismo. Socialisti, liberali e verdi hanno innalzato barricate per evitare che l'Italia, con il conservatore Raffaele Fitto, avesse una vicepresidenza esecutiva, ma Ursula von der Leyen, seguendo la logica dei popolari e l'insegnamento di Angela Merkel, non gli ha dato peso ed è andata avanti come un treno, salvaguardando e valorizzando il posizionamento centrale che occupa nel Parlamento di Strasburgo. Di fatto un epilogo scritto da mesi perché, com'è nello stile del Ppe che tollera l'ideologia solo a piccole dosi, l'attuale presidente della Commissione europea ha coniugato il patto politico con la sua vecchia maggioranza con l'intesa personale con Giorgia Meloni assicurandosi così, nei fatti, un serbatoio di voti per mediare sui dossier delicati, quelli su cui il Ppe ha visioni differenti, più moderate, rispetto ai suoi alleati tradizionali. Voti che, in minima parte, la von der Leyen aveva già avuto come segnale il giorno della sua elezione (il ministro degli Esteri lo ha gridato ai quattro venti invano). Ecco perché tutta la vulgata dell'Italia isolata in Europa è stata un wishful thinking della sinistra fin dall'inizio che è rimbalzato per mesi sui giornali d'area, una vera patacca visto che la presidente della Commissione non è venuta mai meno all'intesa «non detta» con la premier italiana. E non poteva essere altrimenti perché le elezioni europee sono state vinte dai popolari che si sono conquistati il diritto di dare le carte in Europa. Non certo dai socialisti, dai liberali di Macron o dai verdi e per alcuni versi neppure da una destra che non è andata male nelle urne ma su posizioni che l'hanno messa ai margini degli equilibri europei (i commenti del generale Vannacci sulla commissione sono quelli di chi vive sulla luna).
Pragmatismo, appunto. Ecco probabilmente il Pd avrebbe fatto meglio, molto meglio, a battersi per deleghe ancor di maggior peso per il commissario italiano, non che quelle avute siano trascurabili visto che il fondo di coesione è fondamentale per il nostro meridione, ma magari premendo sulla von der Leyen affinché lasciasse nelle mani di Fitto, secondo i pronostici della vigilia, tutta la delega sul Pnrr che ora dovrà dividere con un altro commissario, il lettone Valdis Dombrovskis. Ci avrebbe guadagnato in immagine e avrebbe assicurato all'Italia un ruolo maggiore nella gestione di un dossier strategico per il Paese. Invece, ancora ieri i vertici del Pd non avevano espresso un endorsement ufficiale su Fitto, rimandando il loro giudizio all'esame in Commissione come se davvero il partito della Schlein (foto) potesse negare il proprio appoggio al candidato italiano mettendosi sotto le suole l'interesse nazionale o se nell'audizione il personaggio, con la sua storia, potesse sgarrare di un virgola sul tema dell'europeismo.
Insomma, una battaglia su niente e un'occasione persa. Magari per stare appresso ai grillini che hanno già annunciato di votare contro Fitto adducendo motivazione ideologiche.
Grillini che per pragmatismo, o meglio dire opportunismo se non addirittura paraculismo, non sono secondi a nessuno: a Strasburgo infatti sparano contro il candidato del centro-destra, ma a Roma sono pronti a far passare il candidato del governo, Simona Agnes, per la presidenza della Rai per ritagliarsi uno spazio nella tv pubblica. Una lezione di cui la Schlein dovrebbe far tesoro per le istruzioni per l'uso del «campo largo».
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