Liberi e uguali in rosso. L'unica consolazione: godere del ko di Renzi

Risultato disastroso degli "scissionisti": il partito consuma la vendetta sul Pd, ma i big rischiano

Liberi e uguali in rosso. L'unica consolazione: godere del ko di Renzi

Pas d'ennemie à gauche! Vecchio più di cent'anni, regge e non ammette eccezioni il grido del radicale francese René Renoult. Così se l'esistenza in vita di Liberi e uguali condiziona e conta, nell'agognata débacle renziana, la dispettosa comparsa di gruppuscoli alla sua sinistra ne rallenta anzi blocca la crescita. Alla fine la «doppia cifra» resta il sogno di una notte di mezzo autunno. Si sta come sugli alberi le foglie, contando su meno della metà di quei voti. E senza sapere se si rivedranno in Parlamento D'Alema e compagni. Inezie, dunque: tra il 3 e il 4%, secondo le prime proiezioni. Vale a dire una voragine, rispetto al massimo storico della Rifondazione comunista di Bertinotti e Cossutta (8,5% alle Europee '94), e stessa percentuale della sua ultima versione riveduta e corretta, quella vendoliana di Sel. Che oggi recrimina non poco, come chi ha dato sangue e fatica a un'impresa che si è rivelata come quella di Sisifo. Per di più verticistica e d'apparato, se non addirittura personalistica vendetta di due ex segretari del Pd, D'Alema e Bersani, nei confronti dell'«usurpatore» del Nazareno.

Fusione a freddo e non partito nuovo della sinistra, come in verità si era sospettato fin dai primi vagiti successivi a una lunga, anzi estenuante gestazione della creaturina. Nata non prematura, ma sicuramente gracile e anemica. Con una campagna elettorale fallimentare tutta in discesa, come la percentuale a fine corsa. Il momento più alto è stato l'incoronazione di Piero Grasso, leader anomalo per eccellenza, considerato che si trattava dell'incontro tra il radicalismo storico della sinistra e una socialdemocrazia da poco tornata a crederci, in virtù soprattutto degli esempi anglosassoni - assai difficili da replicare al di qua delle Alpi - di Bernie Sanders e Jeremie Corbyn. Il presidente del Senato, supplente del Capo dello Stato, e per di più ex magistrato di prima fila nella lotta alla mafia: il contrario di un agitatore di masse o di un raffinato intellettuale caro al popolo. Grasso si è rivelato quasi una zavorra, via via che la barchetta annaspava tra i flutti elettorali, al punto da esser soppiantato sul finale dalla verve femminile di Laura Boldrini, non una cima, presidente della Camera sicuramente dimenticabile.

Scontati fino all'ovvietà le parole d'ordine della campagna elettorale, i riflessi condizionati sull'antifascismo di maniera, il politically correct che alle nostre latitudini, di questi tempi, equivale a darsi una zappa sui piedi. Fragile anche l'apparato ideologico, per non dire della struttura mai nata dall'incontro delle esperienze di giovani virgulti quali Speranza (bersaniano), Fratoianni (vendoliano) e Civati (prodiano, renziano e quindi passero solitario). Trinità finito con un gran scazzo sulla composizione delle liste. Le uniche uscite che si ricorderanno, di questa mesta ridotta della sinistra italiana, sono quella iniziale di Grasso sull'università gratuita (subito messa in soffitta), e quella finale, quando ha ammesso la disponibilità a un governo «di scopo» (subito costretto a smentire anche questa).

Le frasi più sensate sono risultate le metafore di Bersani, che ieri però ha persino sbagliato a votare; le linee politiche gli origami di D'Alema: già

assuefatto, fin dal principio, a un «governo del presidente» (versione apocrifa delle larghe intese). Con questi numeri striminziti, però, oltre a godere delle sventure renziane, c'è poco da sorridere. Una risata li ha seppelliti.

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