Libia, il ritorno dell'Italia con la benedizione Usa (e nonostante Di Maio)

La presenza dell'ad Eni Descalzi è il segno di una relazione nel solco di interessi energetici

Libia, il ritorno dell'Italia con la benedizione Usa (e nonostante Di Maio)

Se il metro per capire la Libia sono i viaggi a Tripoli del nostro ministro degli Esteri Giuseppe Di Maio allora meglio rinunciare. Invece, malgrado Di Maio e le sue poco memorabili trasferte, qualcosa sta cambiando. E persino in meglio per un un'Italia che pochi mesi fa sembrava condannata a rinunciare al ruolo di potenza di riferimento per adeguarsi a quello di inascoltata Cenerentola. Come mai? Il segreto è ignorare Di Maio e far attenzione a chi l'accompagna. La scorsa domenica al fianco (o davanti) Di Maio c'era l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. Una presenza irrituale a latere del primo incontro ufficiale tra un rappresentante dell'Italia e il premier del nuovo governo libico Abdul Hamid Dbeibah. Una presenza indispensabile, però, per garantire una fotografia chiara a quel segretario di Stato Usa Antony Blinken che due giorni dopo ha incontrato Di Maio a margine del vertice Nato di Bruxelles. La presenza di Descalzi segna soprattutto il ritorno ad una relazione Italia-Libia inserita nel solco degli interessi energetici e geopolitici che l'Eni determina e definisce da 62 anni. E che l'amministrazione Biden vuol ripristinare.

Per capirne il perché bastano due eventi. Il primo è l'accordo sui confini marittimi tra Ankara e Tripoli del dicembre 2019 che minacciava di trasformare il Mediterraneo in un possedimento turco. Il secondo è la presenza nelle basi del generale Khalifa Haftar di un esercito di fortuna al soldo di Mosca appoggiato da una dozzina di aerei da combattimento russi. Quei due eventi hanno messo Washington di fronte alla prospettiva di un Mediterraneo suddiviso tra l'ormai inaffidabile alleato turco e l'antico nemico russo. Quanto bastava, (viste anche le relazioni pericolose con Haftar - e quindi Mosca - di alleati come Francia, Emirati Arabi ed Egitto) per far rimpiangere un'Italia sospinta invece ai margini del risiko.

E a far il gioco del nostro Paese, considerato da Washington l'unico in grado di comprendere le trame di Tripoli, s'è aggiunta la sorpresa del 5 febbraio quando i 74 delegati dell'Lpdf (Forum per il Dialogo Politico della Libia) scelti dall'Onu hanno affidato a due Carneadi come Mohamed al-Mnefi e Abdul Hamid Dbeibah la guida del Consiglio Presidenziale e del nuovo governo di unità nazionale. La scelta indecifrabile per Washington, ma accompagnata dal più confortante insediamento a Roma di Mario Draghi, hanno convinto la Casa Bianca a tornare a puntare, come già con Obama, sull'alleato Italia. E con lei su un'Eni considerata, anche a Tripoli, assai più affidabile di una Turchia troppo tentata dall'allungare le mani su gas e petrolio. Ma la rimonta dell'Italia è evidente anche alla luce della nuova trasferta libica intrapresa giovedì da Di Maio al fianco, questa volta, dell'omologo tedesco Heiko Maas e di quello francese Jean-Yves Le Drian. Una presenza non scontata vista la metodica precisione con cui Parigi e Berlino tendono a escluderci dagli appuntamenti in chiave europea, ma imposta da un'America che si fida poco sia di un Le Drian visto troppe volte alla corte di Haftar sia di una Germania considerata inadeguata a comprendere le dinamiche libiche.

Ma per chiudere il giochino dei viaggi l'appuntamento più importante resta quello del 6 aprile quando sul volo per Tripoli salirà non Di Maio, ma Mario

Draghi. Sarà quella trasferta a farci capire se la Libia tornerà a essere non solo la prima linea per il controllo dei flussi migratori, ma anche la «quarta sponda» energetica e commerciale per l'Italia e le sue imprese.

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