Il salto a piè pari del presidente degli Stati Uniti nelle acque agitate di Israele non era prevedibile in termini così draconiani: poco dopo che Netanyahu aveva annunciato, a seguito delle proteste di queste settimane, lo stop alla riforma del giudiziario e colloqui con l'opposizione, Joe Biden ha deciso di colpire duro. Netanyahu non sarà invitato molto presto alla Casa Bianca, ha detto, come invece si credeva. Israele deve abbandonare la riforma giudiziaria. E ha insistito nei particolari: «Come molti sostenitori di Israele sono molto preoccupato che lo capiscano bene: non possono continuare su questa strada. L'ho già detto chiaramente».
Netanyahu, però, aveva lasciato con un drammatico discorso la biasimata strada cui ha alluso il presidente, e in seguito a questo il suo ambasciatore Tom Nides, in svariate interviste e ripetendo quanto il rapporto fra gli Usa e Israele sia un rapporto «fra fratelli, un legame di famiglia», aveva segnalato che quanto prima, «penso dopo Pasqua», l'invito alla Casa Bianca sarebbe stato recapitato. Biden ha dunque smentito il suo ambasciatore e ha segnalato, nonostante la mutata situazione politica, che è in atto una profonda crisi. Netanyahu ha tentato di parare il colpo riparlando con un sorriso degli «indistruttibili rapporti fra i due Paesi», suggerendo che sempre ci sono differenze fra amici e che nulla muterà la natura di «vibrante democrazia di Israele». Poi ha anche detto quello che doveva: «Israele è un paese sovrano che basa le sue scelte sulla volontà popolare e non sulle pressioni internazionali, compresi i migliori amici».
Ci possono essere molte ragioni per cui Biden ha deciso di sferrare la bordata. Da sinistra, la si vede come una disfatta generale della capacità diplomatica di Netanyahu nel campo internazionale, che è sempre stato la sua grande specialità, e con l'indispensabile alleato per la vita stessa del Paese. Ai tempi di Obama lo scontro sull'Iran e i palestinesi era stato duro ma indispensabile, e poi il recupero, con l'ambasciata a Gerusalemme e i Patti di Abramo, aveva curato le ferite. Biden forse ha voluto mettere un'ipoteca sulla leadership di Bibi perché gli dispiace il governo, che ha anche una componente di estrema destra religiosa. Smotrich e Ben Gvir non piacciono a lui come a tanti altri, anche in Europa, e le sue parole fanno pensare che Biden ascolti forse voci che esprimono la speranza che in Israele si veda presto una crisi di governo. Dai commentatori più moderati si sente affermare con certezza, invece, che Biden modificherà presto l'uscita di ieri, che sa bene che l'alleanza con l'unica democrazia del Medio Oriente è indispensabile per intelligence e tecnologia, e anche l'ambasciatore Nides ha ripetuto che il suo invito era suffragato dalla Casa Bianca. Dopo settimane di pressioni perché aiutasse la parte antiriforma, Biden ha visto la disapprovazione americana, anche ebraica, come una leva per indurre Israele, che gode di un aiuto di 3,8 miliardi annui (da spendere, tuttavia, negli Usa) a smorzare le pressioni sul mettere fine all'appeasement con l'Iran. Teheran è ormai quasi arrivato alla bomba atomica. Il presidente del gruppo dei Capi di Stato maggiore Mark Milley ha detto che l'Amministrazione potrebbe decidere di tollerare (contro gli impegni presi) che l'Iran divenga nucleare finché non esprima una minaccia diretta.
Israele, che ha le chiavi di molte indispensabili attività in comune con gli Usa, potrebbe usarle per spingere avanti la comune alleanza contro gli Ayatollah, ma Biden ha qualche carta segreta. Come quel biglietto di invito.
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