Vendere il vuoto, cioè il nulla, al prezzo dell'oro. E poi, per riequilibrare l'ordine naturale delle cose, prendere questo prezioso metallo e gettarlo nella Senna. Era il 1958 quando Yves Klein, artista estremo dell'era pre-concettuale, diede vita a una delle sue operazioni più immateriali: farsi pagare e non dare nulla di concreto in cambio, tranne l'idea e la firma. L'autorialità infatti garantisce l'acquirente almeno quanto entrare in possesso di un quadro, una scultura, un oggetto. Ed è passato più di un secolo da quando Marcel Duchamp, con i suoi celebri Ready Made, ha sovvertito le gerarchie interne. Da allora non è cambiato molto: da una parte i sostenitori di un'arte «materiale», ovvero quelli che riempiono musei, gallerie e soprattutto fiere. Oppure chi cerca altre soluzioni, soprattutto ora che l'isolamento coatto impedisce quel cerimoniale ben noto: tu esponi e vendi, io compro e compro, un tanto al chilo.
Qualsiasi forma d'arte, soprattutto le più eversive, hanno bisogno del mercato per ottenere credibilità. Non molto tempo fa ci aveva provato Banksy (o chi per esso) distruggendo l'opera appena battuta in asta, con la complicità dell'acquirente consapevole che pagare la provocazione è molto più importante che acquistare l'ennesimo esemplare. In questo lungo anno di privazioni sociali l'arte sta cercando di reinventare se stessa, consapevole che quando il sistema ripartirà (già, ma quando?) le regole saranno comunque diverse. Il termine oggi più in voga è quello di Cryptoarte, regolata con il sistema dei blockchain che a sua volta agisce su una valutazione immateriale -gli NTF, non-fungible token- ovvero una moneta alternativa per stabilire il valore e garantire a chi compra di entrare in possesso di un file digitale unico e non più riproducibile. Come sempre accade per i fenomeni di moda c'è la corsa a capirne il meccanismo e non farsi superare dalle novità. Alla fine degli anni '80 gli appassionati di hi-fi erano fissati con il registratore DAT di cui nessuno sa più niente, almeno quanto dei lettori DVD Blue Ray. Così Christie's ha battuto a circa 70 milioni di dollari la più importante opera digitale di Beeple, The Last 5000 Days, che formalmente si presenta come un gigantesco puzzle di piccole immagini prodotte appunto negli ultimi 5.000 giorni a partire dal maggio 2007 e compresse in un jpeg. L'autore si chiama Mike Winkelman, di mestiere fa il graphic designer e per una serie di coincidenze è stimato dal mondo dello spettacolo e dell'alta società dove non ci sono particolari problemi di denaro. Con questa aggiudicazione stratosferica Beeple è il terzo artista vivente più costoso, dopo Jeff Koons e David Hockney. Che non si tratti di un episodio lo confermano altre spese folli degli ultimi tempi riguardo il memorabilia virtuale: un video che immortala una schiacciata a canestro di LeBron James, il primo tweet della storia, messo in rete dal suo fondatore Jack Dorsey nel 2006. Mentre chi lavora nel mercato tradizionale fa fatica a capire come funziona il diritto di seguito, la rivoluzione digitale ci spinge verso territori inesplorati, considerando le potenzialità del mezzo solo in parte conosciute e sfruttate. Ma visto che il mezzo (pittura, fotografia, video, installazione ecc) non basta per qualificare un'opera, ci chiediamo perché qualcuno sia disposto a spendere una caterva di soldi per un collage di immagini digitali. Insomma, per la rivoluzione non basta smontare il sistema: c'è bisogno di trovare forme e contenuti autenticamente sovversivi. Se l'introduzione di misteriosi termini e definizioni porta come risultato una modesta operazione di grafica digitale, significa davvero che il mondo dell'arte è in caduta libera e prova a tenersi in vita disperatamente attraverso strategici coup de theatre.
Niente a che vedere con Duchamp, Klein o Joseph Beuys. Qui siamo alla cartolina, al poster, da quelle parti lì. La profezia hegeliana di «morte dell'arte» (datata 1835), «l'arte è e rimane qualcosa di passato» si è finalmente compiuta.
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