Nel caos francese c'è anzitutto da capire se Emmanuel Macron stia davvero dando la caccia a un premier, a cui dare l'incarico di formare un governo, o se piuttosto non stia cercando di evitare a tutti i costi che il suo centro perda influenza sotto la sua presidenza, costringendo un esecutivo dimissionario ormai da 42 giorni ad assistere a un inedito spettacolo Oltralpe: e chi invece ha preso più voti alle elezioni da lui stesso convocate a restare alla finestra. Il giallo si è arricchito ieri di un nuovo, duplice, giro di roulette. Seconda tornata di consultazioni. Con esclusioni illustri indicate dal presidente stesso. Niente estrema sinistra della France Insoumise all'Eliseo, né la destra Rn. Escluso perfino Eric Ciotti, l'alleato dei lepenisti allontanato dai Républicains, pur restandone presidente, che ieri ha proposto di piazzare nella Costituzione un tempo massimo di 15 giorni per un governo dimissionario: per uscire dalla «paralisi».
Il capo dello Stato ha invece cambiato tattica. Bocciato il nome proposto dalle sinistre, quella Lucie Castets lanciata nel mucchio dal Nuovo fronte popolare, Macron ha provato a dividere la gauche, spronando socialisti, comunisti e verdi ad abbracciare altri lidi. E parlare con il centro. Niet, per ora. Il Fronte dà prova di tenuta con le sue quattro anime. L'appello di ieri di Macron a «quelli che vogliono operare per l'interesse superiore del Paese» non ha sortito grandi effetti. E visto l'atteggiamento dell'Eliseo giudicato «antidemocratico» (così l'hanno definito i mélenchoniani) la France Insoumise ha azionato un'altra mina: per non perdere il pallino della primazia conquistato alle urne con gli alleati, ha chiesto la destituzione del presidente per colpe gravi, annunciando una mozione parlamentare alla riapertura dell'Assemblée il 1° ottobre. Per il 44 per cento dei francesi è una buona idea. Ma non ci sono i numeri: come non ci sono per un governo Castets. E allora? Piazza. Perché, spiega il patron dei comunisti Fabien Roussel, «abbiamo un presidente che contesta il risultato delle urne un po' come fece Trump negli Stati Uniti».
In strada il 7 settembre. Sì dei verdi, che parlano di «deriva illiberale» di Macron. I socialisti in parte si smarcano, tenendo un canale aperto col centro ma senza rompere l'alleanza. Associazioni, ong e sindacati che sostengono ancora il Nuovo fronte popolare preparano invece le bandiere e restano uniti: Castets a Matignon. O piazza. Pallottoliere alla mano, lunedì Macron aveva escluso per la prima volta un governo della gauche, anche senza mélenchoniani. «I lavori continuano», ha detto ieri. Ma il nome del premier non è più l'enigma. Piuttosto il comportamento del presidente. E il tic tac per la legge di bilancio.
Macron consulta e consulterà anche oggi, neogollisti in primis, allargando la platea dei politici a «personalità» non meglio precisate che lasciano presagire anche incarichi tecnici. O far convergere i superstiti delle consultazioni su vecchi arnesi della politica che possano essere digeriti da socialisti, macroniani e neogollisti. Il passaggio in Parlamento dell'impeachment è improbabile anche supponendo che lo votino pure i lepenisti.
La «destituzione», in vigore dal 2007, esplicitata nel 2014, prevede che «il presidente può essere destituito solo in caso di inadempimento dei suoi doveri» per un comportamento manifestamente incompatibile con l'esercizio del suo mandato. Dal 2007 nessuna procedura del genere è andata a buon fine. Nel 2016, i Républicains ne avviarono una contro il socialista Hollande per il libro Quel che un presidente non dovrebbe dire. Fu giudicata inammissibile.
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