“L’interesse pubblico prevalente non c’era, fu un’azione personale”. A parlare non sono i magistrati che vogliono incastrare Matteo Salvini con il caso della Gregoretti, la nave militare con 131 immigrati clandestini a bordo a cui il Viminale vietò lo sbarco per quattro giorni, ma il forcaiolo Luigi Di Maio che, in barba a quando aveva difeso l’ex alleato leghista dall’inchiesta (identica) sull’affaire Diciotti, ha fatto sapere che trascinerà i suoi uomini a votare “contro l’interesse pubblico prevalente” e a favore del processo. È l’ultima giravolta di un movimento che, da quando ha deciso di andare a braccetto con il Partito democratico, ha rispolverato il proprio livore manettaro. Una cattiva attitudine che, quando sedevano al governo col Carroccio, avevano fortunatamente abbandonato, ma che ora si trovano a impugnare nuovamente per rimanere attaccati alla poltrona.
Il 20 gennaio, meno di una settimana prima del voto cruciale per l’Emilia Romagna e, in seconda battuta, per le sorti del governo giallorosso, l’Aula di Palazzo Madama sarà chiamata a esprimersi (ancora una volta) su Salvini. Il quesito è semplice: deve essere processato o no per aver vietato alla Gregoretti di far sbarcare 131 irregolari partiti dalle coste libiche. Il caso risale all’estate scorsa ed è la fotocopia di quando, l’anno prima, il ministro leghista aveva bloccato un’altra nave italiana, la Diciotti, lasciando 177 immigrati in mare per sei giorni. A inizio anno il Senato aveva negato l’autorizzazione a procedere, anche con i voti dei parlamentari grillini. Oggi, invece, Di Maio si frega le mani e si prepara a far votare a favore. Cosa è cambiato? “Il caso Diciotti fu un atto di governo perché l’Unione europea non rispondeva e servì ad avere una reazione, che poi arrivò”, ha spiegato ieri uscendo dagli studi di Porta a Porta. “Quello della Gregoretti, dopo un anno, fu invece un atto di propaganda, perché il meccanismo di redistribuzione era già rodato e i migranti venivano redistribuiti in altri Paesi europei – ha concluso – è questa la differenza enorme tra i due casi, la differenza enorme tra la realtà e la bugia”.
La verità è un’altra. A gennaio, quando il Senato si era espresso sulla Diciotti, il Movimento 5 Stelle sedeva al governo con la Lega. Adesso è a tavola con un altro commensale: il Partito democratico. E, quindi, disco verde alle manette. Anche se, come fa notare Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, “sul piano giuridico e giudiziario le due vicende sono quasi perfettamente sovrapponibili”. Non a caso a mordere le calcagna di Salvini sono gli stessi giudici del tribunale dei ministri di Catania (Nicola La Mantia, Paolo Corda e Sandra Levanti) che lo volevano inchiodare per la Diciotti e per un altro caso ancora, quello della nave Sea Watch. L’accusa è sempre la stessa: aver “bloccato la procedura di sbarco dei migranti”. Aver cioè difeso i confini del nostro Paese dall’ingresso di irregolari.
Se per Di Maio, fino a qualche mese fa, la difesa dei confini era tollerata per tenersi stretta la sedia, per lo stesso motivo adesso non la tollera più e se ne va in tivù ad accusare l’ex alleato di non aver rispettato (inesistenti) accordi con Bruxelles che avrebbero provveduto all’immediata
redistribuzione degli immigrati a bordo. Fantapolitica. Tanto che il deputato leghista Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno col ministro Salvini, non si fa troppi problemi a definirlo “un piccolo uomo”. E come dargli torno?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.