Tra interruzioni per la sanificazione e interventi fiume dei senatori di maggioranza e (pochi) di opposizione, il primo voto di fiducia al governo Draghi arriva a notte fonda: 262 sì, 40 no, due astenuti. Il record di maxifiducia del governo Monti (285 sì) non viene raggiunto, ma il margine resta ampio.
Nelle oltre dodici ore trascorse dal suo intervento, il premier ne sente di tutti i colori. Del resto, che per gestire la sua maggioranza ci voglia anche una squadra di psicologi, Draghi deve averlo capito subito quando ha visto la planimetria del banco del governo. Messa nero su bianco dopo defatiganti trattative, per distribuire i posti a sedere tra i ministri in modo che nessuno si risentisse.
Sedere a fianco del presidente del Consiglio è ovviamente il premio più ambito, sia perché così ci si assicura l'inquadratura tv, sia per gratificazione personale. Così è stato assegnato a rotazione, con la distanza dal premier che cresce col decrescere del gruppo: la mattina a destra c'era Giorgetti e a sinistra c'era Patuanelli, la sera è spuntato Gigino Di Maio. Oggi alla Camera le carte verranno ulteriormente rimescolate, in modo che ognuno faccia il suo giro.
Anche gli applausi testimoniano che il tasso di disagio è ancora alto: la maggioranza non applaude quasi mai tutta insieme durante l'intervento di Draghi. Se battono le mani da una parte a sottolineare un passaggio, dall'altra fischiettano o guardano il telefonino, come fa Salvini quando il capo del governo scandisce che l'euro «è irreversibile». Quando Draghi manda un formale ringraziamento al suo predecessore, da sinistra scoppia un frenetico applauso postumo. E da destra arriva qualche risata e qualche «Buuu».
I grillini sono ovviamente i più confusi: devono mostrare di rimpiangere Conte e promettere vendetta eterna all'orco Renzi che lo ha strappato ai loro affetti, ma al tempo stesso devono attaccarsi saldamente alla giacchetta di Draghi, per essere traghettati nel terzo governo delle loro giovani vite. Il dissenso si è già precipitosamente ristretto, la senatrice Leoni tra singhiozzi e lacrime annuncia che voleva dire no ma dirà sì. Cause di forza maggiore. «La nostra non sarà fiducia incondizionata, bensì ponderata», scolpisce il ponderoso Toninelli, tolto dalla naftalina per l'occasione. La parte della prefica tocca a tal senatore Lanzi, che lancia invettive contro chi «ha privato il Paese di un presidente amatissimo», che sarebbe Conte. Renzi ride sotto i baffi, godendosi il trionfo: «Basta leggersi il discorso del premier per capire che sì, valeva la pena di aprire la crisi». Il suo capogruppo Faraone (che forse andrà al governo per lasciare il proprio posto a Teresa Bellanova) infierisce contro il governo precedente, che «teneva in panchina i Colao e i Cingolani per tenere in campo i Toninelli». Il Pd è squassato, il drappello pro Draghi è in decisa crescita, i nostalgici di Giuseppi iniziano a vacillare, l'idea bislacca dell'intergruppo con M5s e Leu, benedetta da Conte, ha fatto scoppiare lo scontro interno e pare già in via di accantonamento.
«Il discorso di Draghi? Un ottimo inizio (mi scuso per non aver consultato l'intergruppo per dirlo)», punge Matteo Orfini. Emma Bonino avverte saggiamente l'amico premier: «Non sarà sempre come oggi: occorrerà tutta la sua autorevolezza per tenere la barra dritta».
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