Le sezioni specializzate di diritto di famiglia presso i Tribunali di Roma e Milano dettano le prime istruzioni per l'uso della ormai nota sentenza della Cassazione che il 10 maggio scorso ha ridisegnato i confini dell'assegno divorzile.
Sono infatti almeno due le pronunce che, dopo nemmeno quindici giorni dal bailamme mediatico, hanno dato rigorosa applicazione ai principi enunciati e in entrambi i provvedimenti, i Giudici hanno escluso l'assegno divorzile a due mogli che avevano «capacità di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali quali vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali». In entrambi i casi non si è dato accesso a una comparazione fra le rispettive risorse economiche dei coniugi o all'esame del tenore di vita pregresso, proprio perché il possesso di «minimali requisiti di indipendenza» è considerato sufficiente per negare l'assegno.
Viene così ribadito che il matrimonio oggi non risponde più al vetusto concetto di «indissolubilità e sicurezza» ma, semmai, rappresenta un «rischio» che ciascuno volontariamente assume e tutto, quando finisce, deve tornare (tendenzialmente) come prima. Il Tribunale di Roma, abbassando ulteriormente l'asticella fissata dalla Cassazione, arriva addirittura a penalizzare una moglie che non lavora, essendosi licenziata anni prima per diventare casalinga: il giudice afferma che per la sua età e la sua istruzione questa sia pienamente in grado di ricercare un'occupazione «almeno equivalente».
Ma per i due principali tribunali italiani che si sono mostrati recettivi dei principi espressi dalla Cassazione, quanti altri seguiranno la stessa linea? Perché questo è il vero problema della giustizia italiana: l'assenza di uniformità che crea disparità fra situazioni simili. I tribunali italiani, nella stragrande maggioranza, non hanno una sezione specializzata di famiglia e i giudici gestiscono separazioni e divorzi fra uno sfratto e un fallimento. È facile, in questo contesto, che il giudice possa applicare principi in modo eccessivamente discrezionale, spesso innovativo, non allineandosi alla legge (spesso scritta male o incomprensibile) o alla Cassazione.
Ancor prima della sentenza del 10 maggio, infatti, non era insolito imbattersi in magistrati che già bypassavano le indagini sul tenore di vita e la comparazione fra le rispettive risorse economiche, negando assegni di mantenimento, anche in separazione, a coniugi pienamente legittimati a riceverli. E così cresce la confusione: da un lato la sentenza del 10 maggio, poi la pronuncia della stessa Cassazione che conferma, qualche giorno dopo, l'assegno mensile milionario a favore dell'ex moglie di Silvio Berlusconi (nel procedimento di separazione), infine queste due sentenze ancora più rigorose e tranchant. Sembra una lotteria o una roulette russa.
A questo punto, visto che i verdetti, almeno nel breve periodo, saranno ondivaghi, dovranno essere consentiti (con legge) i cosiddetti patti prematrimoniali, con i quali si potranno «costruire» regimi su misura, con buona pace di chi crede ancora nel matrimonio come modello per crescere una famiglia senza correre il «rischio» di rinunciare alla carriera e finire poi nella lista degli esodati.
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