Bastano due sguardi indietro per capire quanto Giorgia Meloni sia soddisfatta della vicepresidenza esecutiva della Commissione Ue incassata ieri da Raffaele Fitto. Il primo al 18 luglio, quando al Parlamento europeo Fratelli d'Italia votò contro il bis di Ursula von der Leyen. Una scelta che l'opposizione considerò in coro «scellerata», convinta che il governo italiano sarebbe entrato in una spirale orbaniana di totale isolamento. Il secondo sguardo è a una settimana fa, quando i vertici di Socialisti, Liberali e Verdi si sono scagliati contro l'ipotesi di concedere un ruolo di così alto profilo a un esponente dei Conservatori di Ecr, rimasti fuori dalla cosiddetta «maggioranza Ursula».
Le cose sono andate in maniera diversa, con l'Italia che ottiene le deleghe di coesione e riforme e porta a casa una delle sei vice-presidenze esecutive. Non un dettaglio, perché non solo significa essere nella stanza dei bottoni della Commissione, ma pure coordinare altri quattro commissari. Con deleghe che, fa notare Meloni, «sono tutte fondamentali per gli interessi italiani». Nel dettaglio sono allargamento (supervisionato insieme alla vicepresidente estone Kaja Kallas), pesca, oceani, trasporti (con l'industria dell'automotive), turismo, agricoltura e cibo. Oltre alla delega sui Pnrr che Fitto gestirà insieme a Valdis Dombrovskis.
Di qui la soddisfazione della premier, secondo cui von der Leyen ha «riconosciuto all'Italia il suo giusto peso» perché «siamo una nazione che conta». La vice-presidenza esecutiva, spiega a Cinque minuti, «era la nostra ambizione» perché «vuol dire avere uno dei ruoli più influenti». Ma il successo è anche politico. Perché mentre in Italia si raccontava di un governo isolato in Europa, Meloni chiudeva una trattativa per nulla scontata. Tanto che quando uscirono le prime indiscrezioni sull'ipotesi di una vice-presidenza esecutiva a Fitto, i più le derubricarono a spin meloniani. Senza considerare che portare Ecr al piano più alto di Palazzo Berlaymont significa spostare l'asse della Commissione verso destra, con un occhio alle presidenziali americane dove non è escluso possa vincere Donald Trump e pure alle elezioni federali in Germania del prossimo anno (dove Afd è ormai stabilmente secondo partito dietro la Cdu-Csu). Insomma, tenersi «vicina» Meloni potrebbe nel quinquennio a venire consentire a von der Leyen di mettere in campo una sorta di «politica dei due forni», tenendo un canale aperto verso destra senza dover però interloquire con i sovranisti dei Patrioti. Tanto che dopo il passaggio delle audizioni in Parlamento dei singoli commissari, a fine novembre è previsto un altro voto (a scrutinio palese) del Parlamento Ue sulla nuova Commissione. E Fratelli d'Italia non solo ha già deciso di votare «sì», ma starebbe anche lavorando su gli altri partiti di Ecr (compresi i polacchi del Pis) per cercare di smussare gli angoli e coprire la possibile diserzione dei Greens.
E oltre al ruolo dell'Italia, è proprio il «riconoscimento politico» per Ecr che Meloni rivendica, con la stessa von der Leyen che ieri ricordava come intorno ai Conservatori non c'è il «cordone sanitario» riservato all'estrema destra, tanto che il Parlamento Ue ha due vicepresidenti di Ecr su 14. Uno su sei nella Commissione riflette esattamente questo schema.
Ora la partita si sposta sulle audizioni di ottobre, tanto che Meloni chiede all'opposizione di «far prevalere gli interessi nazionali».
E parla ovviamente al Pd quando dice di «escludere» che S&D possa «prendere sul commissario italiano una posizione diversa da quella che indica la delegazione italiana, che è anche la più rappresentativa». Tra l'altro, aggiunge, proprio Fitto cinque anni fa «votò per Paolo Gentiloni».
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