Viktor Orbán lascia Palazzo Chigi dopo un'ora e mezza di faccia a faccia con Giorgia Meloni. Un incontro, recita il comunicato congiunto, nel quale si è discusso soprattutto delle crisi in Medio Oriente e Ucraina, con l'auspicio comune - pur nel diverso approccio che hanno Roma e Budapest - di «una pace giusta e duratura» tra Kiev e Mosca. Sul tavolo, ovviamente, anche il nodo dei flussi migratori, che possono essere governati solo «rafforzando la cooperazione con i Paesi di origine e transito» e con un «quadro giuridico aggiornato per aumentare e accelerare i rimpatri dall'Ue».
Ma Meloni e Orbán, inevitabilmente, hanno anche affrontato quella che oggi è la questione su cui sono focalizzate tutte le grandi diplomazie. Ovvero se, come e quanto cambieranno gli equilibri geopolitici globali e quelli transatlantici con l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Che se con la sua vittoria ha da un lato rilanciato quell'idea di una Lega mondiale dei conservatori che piace tanto al presidente argentino Javier Milei (il 14 dicembre prima sarà ricevuto da Meloni a Palazzo Chigi e poi sarà ospite della kermesse di Atreju), dall'altro crea più di un apprensione per le annunciate politiche protezioniste al centro del suo programma America First 2.0.
Sia la premier italiana che il primo ministro ungherese hanno un canale aperto con il tycoon. E in particolare Meloni potrebbe ritagliarsi il ruolo di pontiere tra l'Europa e la nuova amministrazione Usa. Non solo perché è l'unico premier di uno dei Paesi fondatori dell'Ue a essere saldamente in sella (a differenza di quanto accade in Francia, Germania e Spagna), ma anche perché i Conservatori di Ecr si sono riusciti a ritagliarsi un peso dentro la nuova Commissione e hanno un canale preferenzaile con il Ppe e Ursula von der Leyen. A differenza di Orbán (lo scorso luglio ospite di Trump a Mar-a-Lago), visto che il gruppo dei Patriots rimane fuori dal cordone sanitario imposto dalla cosiddetta «maggioranza Ursula».
E che Meloni stia puntando a favorire il dialogo tra le destre non solo europee ma mondiali lo confermano sia i panel in programma ad Atreju che la partecipazione di Antonio Giordano, deputato di Fdi e segretario generale di Ecr, al forum Idu che si chiude oggi a Washington.
L'International democracy union - fondato tra gli altri da Margaret Thatcher, George Bush, Jacques Chirac e Helmut Kohl - riunisce dal 1983 i partiti del centrodestra di tutto il mondo. Non è un caso che vi aderiscano da tempo non solo il Partito repubblicano americano, ma pure la Cdu e la Csu tedesca e il Pp spagnolo. Insomma, un altro ponte tra Popolari e Ecr. Tanto che oltre a Giordano a Washington è presente anche la vicecapogruppo di Forza Italia alla Camera Deborah Bergamini (e molti degli incontri i due li hanno tenuti insieme). Come in Europa, peraltro, anche tra i circa 500 delegati di Idu il principale argomento di confronto è proprio l'approccio che avrà Trump verso l'Ue, visto che un eccessivo aumento dei dazi rischia di favorire processi inflazionistici. E sarà anche per questa ragione - questa almeno è l'aria che si respira al forum Idu - che alla fine ci si attende sì politiche protezioniste, ma non così severe come annunciato in campagna elettorale.
Da Washington a Roma. Con Atreju che ospiterà Milei (ieri a Buenos Aires ha presenziato al Cpac Argentina, riunendo tutti i conservatori dell'America Latina), ma anche l'ex premier polacco Mateusz Morawiecki (Pis) e la ministra dell'Innovazione di Israele Gila Gamliel (Likud).
Con una lunga lista di eurodeputati conservatori da tutta Europa, tra cui il polacco Adam Bielan (capo delegazione di Pis), l'ucraina Olena Khomenko (Servant of the People) e la francese Marion Maréchal. Un pacchetto a cui si dovrebbe aggiungerà anche un ospite americano in rappresentanza del Partito repubblicano.
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