Mercati e false promesse: perché la bolla green deal è sul punto di esplodere

Il 2025 potrebbe essere l'anno del definitivo flop: da mesi i fondi speculativi scommettono contro il settore. Anche le "ricette" della politica sono costose e (quasi) irrealizzabili

Mercati e false promesse: perché la bolla green deal è sul punto di esplodere

Potrebbe essere l'anno della definitiva esplosione della bolla green, o meglio del «green deal» sognato dall'Accordo di Parigi sul cambiamento climatico del 2015: il quale resta, coi suoi 194 firmatari, il patto più dispendioso mai siglato nella storia dell'umanità. I segnali sono tanti, più che in passato: dalle scontate «gufate» di Amin Nasser di Aramco, che ha dichiarato fallita la transizione energetica, al distacco ormai netto tra i grandi fondi di investimento e i temi «woke» energetici: da mesi, ormai, gli hedge found (i fondi speculativi) hanno messo sotto osservazione i settori chiave dell'economia green e hanno deciso di scommettergli contro. E non importa se continua a crescere la lista degli Stati che foraggiano l'ecologismo con incentivi e detrazioni fiscali: è un fatto che i fondi che puntano sul ribasso delle energie rinnovabili sono più di quelli che puntano su loro rialzo, mentre crescono le puntate a favore dei combustibili fossili. Lo aveva già notato Bloomberg nell'ottobre scorso: che l'indice Global Clean Energy, dal suo picco del 2021, ha perso quasi il 60 per cento del suo valore, mentre l'indice Global Oil è salito di oltre il 50 per cento. Un esempio? Impax Asset Management (società di investimento da 50 miliardi di dollari) aveva fatto del sostegno alla transizione ambientale una cifra distintiva, ma oggi ha visto più che dimezzarsi il suo valore di mercato. In sostanza, sempre secondo Bloomberg, gli hedge found sono convinti che i 215.000 miliardi di dollari che servirebbero per azzerare le emissioni entro il 2050 non arriveranno mai sul mercato.

Poi d'accordo, i fondi speculativi hanno lo sguardo corto, una rondine non fa mai primavera: ma le rondini sono uno stormo e della primavera non c'è traccia. Alcuni tra i maggiori asset manager al mondo (da BlackRock a Blackstone, Kkr e T. Rowe Price) nei loro report annuali hanno inserito tra i rischi finanziari l'attuale complicata situazione politica a discapito del dilagare delle politiche Esg (environmental, social e governance). E sin qui c'eravamo. Ma ora, come detto, i fondi non appoggiano decisamente più le proposte Esg presentate dai loro azionisti, e non vendono più titoli del settore. In pratica sono convinti che la maggior parte degli investimenti sul clima farà fatica a ripagarsi, e, insomma, che sarà assai meno profittevole del previsto. C'è una maggioranza che scommette al ribasso su batterie, solare, veicoli elettrici e idrogeno e, viceversa, una minoranza che scommette su un loro rialzo. Questo mentre sorpresa crescono le puntate a favore dei combustibili fossili come petrolio, gas e carbone.

All'inizio del dicembre scorso, poi, c'è stata un'altra gelata sui fondi di sostenibilità: la raccolta netta di capitali per fondi e fondi Etf sostenibili, nel terzo trimestre del 2024, è stata di appena 10,3 miliardi di dollari contro, per dire, i 160 miliardi del quarto trimestre del 2021. In notevole calo anche i nuovi prodotti finanziari Esg già lanciati: 57 contro gli oltre 300 di fine 2021. Va detto che a causare questa forte disaffezione verso i prodotti finanziari green c'è la situazione politica. Da una parte il rinnovato pressing dei Repubblicani statunitensi contro i gruppi attivi sul fronte climatico, poi la guerra delle tariffe, la spada di Damocle dei dazi, soprattutto la solita Cina, che, oltre a farla da padrone nell'automotive, detiene la stragrande maggioranza della catena di approvvigionamento delle tecnologie verdi perché possiede e tratta le materie prime. Prima, e non mancavano avvisaglie, c'era già la concreta possibilità di un conflitto commerciale contro i prodotti di Pechino che minacciava la transizione energetica e l'economia che ci gira intorno: ora, tempesta sul bagnato, hanno pure eletto Donald Trump.

In Europa è già diverso, anche perché, come detto, la sbornia ecologista induce ancora gli stati a sparpagliare incentivi e detassazioni a pioggia. Nel vecchio continente resiste l'utopia del 2019 che ha fissato per il 2050 il traguardo di un'economia con emissioni di gas serra pari a zero, ossia la cosiddetta neutralità climatica: ogni fonte di energia fossile (petrolio, gas, carbone) entro quella data dovrebbe essere sostituita da una fonte rinnovabile (idroelettrico, solare fotovoltaico, bioenergie, eolico, geotermico) anche se il crederci, ormai, ha tutta l'aria di una suggestione collettiva. Per questo il discorso di Amin Nasser alla conferenza sull'energia dell'ottobre scorso, benché clamorosamente di parte (Nasser è ad di Saudi Aramco, tra le più grandi compagnie petrolifere del mondo) ha destato comunque impressione per il timore che possa aver ragione: ha detto che l'energia basata sui combustibili fossili non può essere sostituita da fonti più «pulite», ha esortato affinché ogni paese possa de-carbonizzare al proprio ritmo evitando approcci a «taglia unica», ha detto che le rinnovabili sono insufficienti e che la transizione energetica globale è sostanzialmente fallita, anche perché l'eolico e il solare rappresentano solo il 4 per cento della produzione energetica globale. E, per ora, è complicato dargli torto, anche perché a dargli ragione, in termini di fattibilità e convenienza, contribuiscono indirettamente vari Nobel (tra i quali William Nordhaus, l'unico economista che nel 2018 ha preso il Premio Nobel per aver inserito il cambiamento climatico nell'analisi macroeconomica di lungo periodo) e nondimeno sembrano dargli ragione anche gli economisti del Mit di Boston, che hanno calcolato quanto costerebbe mantenere la temperatura entro 1,5° e raggiungere emissioni pari a zero entro il 2050: tra l'8 e il 18 per cento del PIL entro il 2050, e tra l'11 e il 13 per cento entro il 2100. Ma l'Europa resiste. A settembre il Financial Times spiegava che i prezzi dell'energia in Europa, nel 2024, sono scesi sotto zero per un numero record di ore, e questo proprio grazie a un eccesso di offerta dovuto alle nuove generazioni di eolico e solare. Poi c'è chi scommette sul futuro e per esempio sui piccoli reattori nucleari modulari. Altri ancora, invero una minoranza, fanno notare che sulle promesse del «green deal» pesa un peccato originale non di poco conto.

Il 2030 è l'Anno entro il quale il Parlamento europeo ha deciso che le emissioni di CO2 dovranno essere ridotte di almeno il 55 per cento, e mentre scriviamo siamo al 40; il 2035 invece è l'anno entro il quale sarà vietata l'immatricolazione di tutte le auto e i veicoli leggeri a benzina, i quali non dovranno produrre emissioni di anidride carbonica (gas serra) che perciò dovranno essere a emissioni zero, ma e non ci crede nessuno, infine c'è il 2050 con le famose emissioni zero. Il peccato originale, dicevamo: forse è che a stabilire queste improbabilissime scadenze non è stata l'economia, e neppure la scienza, bensì la politica.

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