I soprannomi che gli hanno dato, «ombra», ma anche «l'uomo che è tornato dalla morte», e la narrazione miliziana che lo descrive come abilissimo, prudente e inafferrabile, raccontano solamente in parte chi sia in realtà Mohammed Sinwar, il leader di Hamas in pectore cui spetta l'ultima parola sull'accordo di tregua con Israele. Il fratello minore di Yahya, quello che fu il vero capo del movimento estremista fino all'uccisione in un raid israeliano, in realtà è uno spietato stratega e un killer senza scrupoli. Un estremista, uno di quelli per cui la morte di migliaia di civili altro non rappresenta se non il prezzo da pagare alla causa. A lui, poco importa.
Chi lo conosce, rimanendo anonimo per paura di ritorsioni, racconta che nessuno osa incrociare il suo sguardo quando lo vede perché basta un fraintendimento per scatenare la sua reazione, spesso letale. «Uccide con estrema facilità chiunque lo ostacoli», racconta un palestinese di Gaza, là dove è molto più temuto che rispettato. Da quando il fratello è stato ucciso, è lui ad aver preso in mano il movimento, in particolare nel tentativo di riorganizzazione dell'ala armata, decimata dalle azioni israeliane in tutta la Striscia, cercando di arruolare migliaia di giovani avvicinati durante funerali e manifestazioni. Avvicinati non da lui, uno dei principali architetti della costruzione dei tunnel sotterranei in cui come nessuno è riuscito a far perdere le proprie tracce, nonostante Tel Aviv abbia messo sulla testa una taglia da 400mila dollari e più volte negli anni abbia cercato di eliminarlo. Lui, fatta accezione per un arresto negli anni Novanta, è sempre riuscito a sfuggire, alimentando l'eroica narrazione del gruppo terrorista.
Da sempre confidente fidato del fratello Yahya, uno dei pochi che conosceva i suoi spostamenti e tra la ristrettissima cerchia a conoscenza degli attentati del 7 ottobre, di cui sarebbe stato uno delle menti, forte della sua conoscenza dei tunnel e quindi delle vie di fuga. Cinquant'anni ancora da compiere, gli studi nelle scuole di Gaza gestite dall'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, poi subito in prima linea nella lotta armata, già dalla prima intifada. Resta sempre in posizione defilata, fa di tutto per nascondere il suo volto. Eppure prende parte a diversi attentati e rapimenti, acquista potere in seno all'organizzazione. Viene arrestato, sconta 9 mesi in una prigione israeliana ma poi riesce a fuggire dopo il trasferimento a Ramallah. Da quel momento la sua ascesa è continua, fino al vertice di Hamas. Tanto da essere oggi decisivo.
A meno che il suo continuo alzare la posta, chiedendo tra l'altro anche la restituzione del cadavere del fratello, non faccia saltare per l'ennesima volta il banco. Intanto a lui, che resta nell'ombra, sembra importare poco.
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