Negri: "Pannella senatore a vita? Ai radicali non fregava un c..."

Giovanni Negri: "Uno straniero in patria non può lasciare eredi politici"

Negri: "Pannella senatore a vita? Ai radicali non fregava un c..."

“Chi non è con me è contro di sé, così diceva Marco Pannella. Una mirabile sintesi da non dimenticare. Comunque è morto un pezzo di alcune centinaia di radicali, anche come lui ci ha insegnato a esserlo, delle nostre vite”…

Se siete nati alla fine degli anni Ottanta e non conoscete il mondo del vino il nome di Giovanni Negri non vi dirà nulla. Torinese, classe 1957, produttore di vino nel cuore della Langa piemontese, Negri è stato il pupillo di Marco Pannella, nonché ultimo segretario operativo del partito radicale dal 1984 al 1988. Un enfant prodige della vita pubblica italiana. Dal 2000 segue la politica da cittadino comune, da produttore di vino.

Quando ha conosciuto Pannella?

“Gennaio 1975. Avevo 18 anni, vado a prendere in taxi alla sede della Stampa di Torino Marco Pannella e Loris Fortuna (padre della legge sul divorzio, ndr). Volevo stringere loro la mano personalmente perché ero figlio di divorziati che grazie a quella legge avevano potuto separarsi e vivere meglio”.

Cosa la colpì di Pannella?

“Non sembrava un italiano. Dire più uno straniero in patria, come si definì lui stesso un protestante in terra di controriforma cattolica, di formazione calvinista, la madre era svizzera. Oggi si ricorda il Pannella di Cicciolina, del bavaglio in tv, degli spinelli. In realtà Pannella ha avuto un percorso all’insegna di un rigore morale d’acciaio… e tutti noi radicali eravamo d’acciaio”.

Anni di avanzata comunista, quelli. Invece lei com’è diventato radicale?

“Ero un giovanissimo liberale, fu la battaglia per il divorzio a convertirmi ai radicali. E ci definivamo borghesi, e lo eravamo, in anni in cui essere borghesi era considerata un’infamia. Anni di cambiamenti incredibili, e Pannella è stato un modernizzatore”.

Cosa succedeva in quel periodo?

“Tra i miei 17 anni e i miei 22 anni sono partito con un’Italia in bianco e nero senza topless e bikini e sono arrivato in un’Italia con il voto ai diciottenni, l’aborto, la questione femminile, la tv a colori. Un cambiamento percepito incredibile, specialmente a Torino”.

Era come una grande famiglia il partito radicale…

“Si pensi che facemmo la scorta di partito ad Adelaide Aglietta (allora segretaria dei radicali, ndr) che, sorteggiata giudice popolare in un processo contro la colonna torinese del terrorismo rosso, aveva rifiutato quella assegnatale dalla prefettura. E molti dei terroristi che avrebbero potuto colpirci erano stati miei compagni di scuola, facevano la quinta Q allo scientifico Galileo Ferraris. Tra loro Marco Donat Cattin, figlio del leader torinese della Dc Carlo”.

Ha detto: “Non sono io ad essere uscito dalla politica, è stata la politica a uscire da noi”. Cosa ha voluto dire?

“Da noi italiani, perché una certa politica è finita con la prima Repubblica, un nuovo assestamento non c’è mai stato. Pannella era un gigante in mezzo ad altri giganti che si muovevano sulla scena. E non era pensabile che le decisioni nella culla della democrazia, l’Europa, venissero assunte da organismi non eletti democraticamente”.

La parabola discendente del partito radicale ha anticipato quella della prima Repubblica?

“Con grande dolore, è esatto. La responsabilità principale è di Pannella che, anziché aprirsi a una fase costituente di un’area politica si è rinchiuso in un ruolo di testimonianza, proprio quando il regime che con Pannella avevamo sempre combattuto stava crollando. Un po’ come il partito socialista…”

Cioè Craxi come Pannella?

“No, sono due personaggi molto diversi. Ma un passaggio del testimone fu tentato dal leader socialista. Primi giorni di maggio 1994, mancano poche ore al volo con cui Craxi, non più parlamentare, lascia definitivamente l’Italia per trasferirsi in Tunisia, ad Hammamet. Lui e Pannella s’incontrano a Roma, all’hotel Raphael. Più o meno Bettino fece questo ragionamento: Marco, io sono finito, adesso tocca a te raccogliere un’area laica, socialista e libertaria che vale il 20% dell’elettorato. Purtroppo Pannella non ha raccolto il testimone, e con lui noi radicali siamo finiti ai margini della politica italiana”.

Perché ha abbandonato la politica?

“Nel 2000, morto mio padre, mi trovai davanti al bivio se continuare con la politica e il giornalismo e vendere l’azienda di famiglia o puntare sull’impresa. Per fortuna ho scelto la seconda strada. Nel frattempo Pannella aveva sciolto il partito radicale in una realtà internazionale; poi sono nati i surrogati, le liste Bonino, amnistia, sì referendum”.

E oggi il nebbiolo, nel destino di ogni piemontese che abbia a che fare con il vino…

“Nell’impresa c’è molto entusiasmo tipico della politica che ho conosciuto io, con tutte le gioie, gli slanci e gli affanni. E poi il mondo del vino ha dei personaggi svariati, l’illuso, il poeta, il mascalzone, il signore. Una bella Italia!”.

Tornerebbe in politica?

“Sono radicale, non credo che i partiti e i politici debbano essere eterni. Quel partito radicale poi non esiste più. I comunisti, per restare tali dopo il crollo del Muro di Berlino, oggi non sono più niente: né socialisti, né socialdemocratici, né democristiani, nulla”.

Pannella, novello Crono, ha divorato tutti i suoi figli politici. C’è qualcuno che gli somiglia?

“Uno straniero in patria non può lasciare eredi politici. E vorrei aggiungere una cosa…”.

Cosa?

“Sento

alcuni che si lamentano perché non hanno dato a Pannella il seggio di senatore a vita. Per come siamo noi radicali, non ce ne può fregare un c… della carica di senatore a vita o post mortem! E si figuri a Marco Pannella!”.

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