Nel Pd si scannano sul lavoro ma danno la fiducia in bianco

Il Jobs Act al voto in Senato nella notte: 36 parlamentari democratici firmano un documento di dissenso sull'articolo 18 e il senatore Tocci annuncia le dimissioni La battaglia si sposta già alla Camera

Già lo chiamano «Bluff Act». Il «Jobs» s'è perduto nel grottesco di una giornata che plasticamente rappresenta quel che accade al di sopra e al di sotto del visibile. A Milano il presidente del Consiglio parla compassato in conferenza stampa - anzi piuttosto impettito e rafforzato dalla salve di elogi sperticati dei colleghi europei (da «fantastico» a «passo importante e di grande impatto»). Angela Merkel e Barroso, Van Rompuy e Schulz ne parlano come di bottino già nel carniere, eppure proprio in quelle ore nel Palazzo in via d'estinzione, la «Madama» che fa tanto barocco e cattivo presagio, sta andando in scena l'ultimo atto tumultuoso di una bagarre senza fine. Volano libri e parolacce, senatori «onorevoli» ormai soltanto per un vacuo cerimoniale aggrediscono commessi e occupano scranni, ostruiscono e cercano di rallentare il treno che sembra volerli maciullare. Ne resta investito il partito del premier - paradosso dei paradossi - e dunque alla fine se Matteo Renzi la spunta, la spunta lui e lui soltanto. Non il partito riottoso e ipocrita che rinvia la guerriglia alla prossima Camera.

Il provvedimento di delega al governo, la «scatola vuota» e «depotenziata», l'«occasione perduta» come la definisce un'opposizione di nome e magari non di fatto, passa così all'ora del cicchetto notturno, quasi del «bicchiere della staffa». Quando cioè s'è bevuto e mangiato, il peggio d'una brutta giornata è passato, e non si vede l'ora di rifugiarsi nelle coltri per smaltire e digerire quel piatto che resta sullo stomaco. Sapendo che, forse, è costato un occhio della testa e per di più il conto era truccato. «Carico» oltremisura, nel linguaggio dell' oste. Si vota «consapevoli - tanto per usare la misura della vicepresidente del Senato Linda Lanzillotta - che l'Italia si gioca l'osso del collo». Ma è questo il terreno sul quale Renzi s'è giocato credibilità e futuro, e la rigidità del suo «non molliamo» sta tutta in questa sfida oltre la quale non c'è molto. Forse soltanto l'arrivo della «troika» europea e della paventata manovra punitiva da 40 miliardi.

Renzi ha puntato d'azzardo, e che a nessuno venga in mente di andare a vedere il «bluff». Le carte, per ora, restano assai scarne di contenuti: la fiducia s'è votata a scatola chiusa, anzi vuota. Dentro, come sembra di capire dagli interventi del ministro Poletti, ci potrà finire di tutto. A cominciare dall'art.18 che, dice il ministro del Lavoro, «è una parte significativa ma non è una sorta di alfa e omega delle nostre riflessioni». Su di esso si sono create «forse eccessive aspettative,ma è meno decisivo di quello che si possa ritenere».

Non si misurerà dunque su questo la vittoria renziana, piuttosto sul fatto di aver piegato - probabilmente umiliato - la minoranza interna del Pd. Costretta ancora una volta a dare il peggio di se stessa, in una rincorsa affannosa di rotture e rattoppi, con il bersaniano D'Attorre e l'(ex?) giovane turco Fassina spediti al Senato per cercare compromessi e rinvii, mantenere la calma ma anche ottenere il massimo ottenibile (alla fine, condensato in una frase di Poletti: «Nella stesura dei decreti delegati terremo conto della diversità di posizioni sull'articolo 18»). Ancora una volta la scissione dell'atomo s'avvera sotto gli occhi depressi e sbigottiti di una maggioranza che si regge nel nome di Matteo: un pugno di «civatiani» impenitenti si eclissa, i «cuperliani» vagheggiano documenti, Gotor e altri 35 sottoscrivono invece un cahier de doléance di carattere surreale, nel quale le premesse bocciano senza appello il governo, eppure le conclusioni smentiscono le premesse. «Ci sentiamo responsabili verso il Paese che vive una profonda crisi, un Paese che ha bisogno di un governo autorevole». Ergo, «voteremo la fiducia».

Walter Tocci lo farà, ma annunciando che si dimetterà da senatore. La battaglia ricomincerà così alla Camera, dopo che Renzi avrà calato il quinto «asso», quello finora ben nascosto nella manica. Già, ma nel mazzo non ce n'erano solo quattro?

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