Nervi saldi e proporzionale. Così ripartono le trattative

Il Cavaliere insiste sul Tedeschellum e riapre i canali di dialogo con Renzi. Ma l'equilibrio ora è instabile

Nervi saldi e proporzionale. Così ripartono le trattative

L'ultima puntata del suo eterno ritorno il Cavaliere se l'è goduta ad Arcore. Già alle 20 di domenica sera, erano chiare le dimensioni del successo del centrodestra, ma Silvio Berlusconi dopo più di vent'anni trascorsi navigando tra i marosi della politica, ormai ha imparato a mantenere i nervi saldi e i piedi ben piantati a terra. Per cui grande vittoria certo, ma i suoi ragionamenti del giorno dopo sono ben diversi dai toni trionfalistici di personaggi come Matteo Salvini o Giovanni Toti, che scambiano Genova per Roma o Milano, e, addirittura, la Liguria per l'Italia. «Ciò che è avvenuto è la dimostrazione - è stato il suo leit motiv - che il centrodestra unito vince. Questo non significa che dobbiamo cambiare la nostra tabella di marcia. Tentiamo di riaprire il confronto con gli altri su una legge elettorale proporzionale sul modello tedesco; e, per farlo, dobbiamo diventare centrali nei numeri anche in questo Parlamento. Motivo per cui va assecondato chi ci ha lasciato, ma ora vuole tornare a casa».

Il Cav mette nel conto anche qualche polemica interna, di chi già parla di modello Genova per rilanciare il maggioritario. Era nelle cose, anche perché gran parte dei risultati, a cominciare da quello del capoluogo ligure, erano scontati. Semmai la sorpresa, per fare un esempio, è venuta più da L'Aquila. Ma elezioni locali che registrano un record negativo nell'affluenza (sotto il 50%) non possono far cambiare politica. «Abbiamo vinto - ha spiegato ai suoi - ma è come se si fosse giocato solo in una metà del campo di calcio. Alle politiche si giocherà su tutto il campo, visto che l'affluenza sarà maggiore, e i numeri potrebbero essere diversi. Inoltre le urne semidiserte dimostrano che è necessaria una legge proporzionale che dia una rappresentanza più chiara del Paese nelle istituzioni». Discorsi che riecheggiano i ragionamenti della maga dei sondaggi, Alessandra Ghisleri: «Ora il centrodestra deve stare attento a non prendere un miraggio». Senza contare che i fattori locali hanno contato non poco nel voto amministrativo (su Sesto San Giovanni ha pesato il «caso» della moschea) e il governo e la sua maggioranza hanno fatto errori pacchiani: lanciare il tema dello ius soli ora (basta guardare i sondaggi) è stato un suicidio; regalare 11 milioni di euro ad un conduttore Rai alla vigilia dei ballottaggi, dopo aver introdotto il tetto agli stipendi, è stato da folli; e, ancora, chiedere di fatto ad urne aperte 17 miliardi agli italiani per salvare le banche venete, un mezzo harakiri. «A sinistra - se l'è cavata il Cav con una battuta - è in voga il masochismo».

Più o meno sugli stessi argomenti arrovellano nelle stesse ore, sull'altro versante dello schieramento politico, Matteo Renzi. Anche l'ex premier si aspettava un risultato del genere, una batosta del Pd: non per nulla in questi mesi aveva tentato in tutti i modi di anticipare le elezioni politiche prima del voto amministrativo. Non riuscendoci, si era messo l'elmetto da tempo per fronteggiare le polemiche interne. Di certo anche lui è rimasto perplesso per certe scelte del governo. «Io - ha spiegato agli intimi - con la mia gente non ho problemi. Possono essere il 25, il 30, il 35%, ma non mi abbandoneranno mai. Il mio problema è che in questo ballottaggio mi sono arrivati addosso, per scelte del governo, tutta una serie di siluri dalla Consip allo ius soli, da Fazio alle banche venete». Insomma, secondo Renzi non è stata bocciata la sua politica, ma la gestione di alcuni argomenti delicati da parte di Palazzo Chigi e di alcuni ministri. Anzi, per alcuni versi, se si analizzano le ragioni della sconfitta a partire dell'epilogo del candidato «bersaniano» del Pd battuto a Genova («io avrei fatto correre la Pinotti» è la recriminazione del giorno dopo), per finire alla sconfitta a La Spezia, patria del capo della minoranza interna Orlando, si arguisce che le terapie per rilanciare la sinistra non sono certo quelle che prospettano Pisapia, gli scissionisti del Pd o gli orfani dell'Ulivo.

Sul Pd, questa è la convinzione del suo segretario, pesa, soprattutto, l'indeterminatezza dell'azione di governo, causata non dalla compagine ma da un quadro politico estremamente confuso. È il fattore nuovo che emerge dal voto amministrativo: un problema prevedibile, che è stato alla base della voglia di elezioni che ha animato in questi mesi il segretario del Pd, ma dalle dimensioni superiori alle attese. Motivo che sta spingendo Renzi a mettere in campo diverse opzioni. La prima è quella di riprendere la strada interrotta due settimane fa sul sistema tedesco. Renzi dopo l'incidente della Camera che ha bloccato la legge elettorale, ha continuato a coltivare questa ipotesi. Lo ha detto chiaramente a Prodi. Successivamente il consigliere del professore Arturo Parisi gli è sembrato più possibilista: «Se proprio dobbiamo andare ad un accordo sulla legge elettorale con Berlusconi, allora mettiamoci anche l'impegno a modificare i regolamenti parlamentari».

Ha dialogato sul tema anche con l'ex presidente Giorgio Napolitano, con cui ha avuto un mezzo chiarimento dopo lo scontro avuto nei giorni del dibattito alla Camera. «Io - è la lettera che il leader del Pd ha ricevuto dall'ex capo dello Stato - non sono contrario al tedesco, semmai ho dissentito dall'idea di un'intesa tra i partiti extra costituzionale». Distinguo, magari interessati, di lana caprina. E dell'ipotesi di rilanciare il tedesco il segretario del Pd ha parlato anche con il Premier. «Se decidi di farlo - è stato il consiglio dell'attuale Premier - aspetta settembre». Renzi ha assentito, ma gli ha anche fatto una previsione: «Tu mi metti in guardia da Berlusconi ma con l'odio che covano nei miei confronti gli scissionisti di Bersani quelli appoggeranno la legge di bilancio solo se rinnegherà palesemente le scelte del mio governo. Quindi, per approvarla rischi di avere bisogno proprio del Cavaliere».

L'opzione prioritaria, quella del ritorno al tedesco, cela, però, una condizione «sine qua non»: i numeri, specie in Senato, debbono cambiare; il Cav deve riprendere buona parte delle truppe che ha perso nelle diaspore di questa legislatura. Insomma, il segretario del Pd non è più nelle condizioni di rischiare. Tanto più che i risultati di domenica hanno aggiunto confusione, a confusione.

La voglia di proporzionale è aumentata in un Pd sconfitto, come pure tra i grillini e nella sinistra estrema. Ma di contro il maggioritario, ha fatto proseliti nella Lega e, forse, in qualche spezzone di Forza Italia. Per non parlare dell'allergia alle urne che contagia l'intero Parlamento ogni volta che si parla di legge elettorale. Ecco perché per tentare Renzi vuole numeri certi: «Con le dovute garanzie sui numeri, io sono pronto. Altrimenti...». Altrimenti il segretario del Pd deve fare i conti con le paure che albergano nella sua mente: l'attuale scenario, infatti, sembra fatto apposta per logorarlo. «O si va presto al voto - è il suo ragionamento - o io debbo porre una distanza tra me e questa situazione logorante, non posso sempre pagare io per gli errori degli altri». Ecco perché nei suoi piani l'opzione principale - in via teorica - è stata affiancata da altre subordinate. In breve: andare al voto in tempi brevi con la legge uscita dalla Consulta, previo un accordo politico con il Cav o con chi ci sta; o riprendere la trattativa sulla legge elettorale a settembre, ma a quel punto è probabile che il governo possa essere costretto chiedere - un aiuto all'opposizione, più specificatamente, a Forza Italia sulla legge di stabilità. Un'ipotesi anche questa estremamente complicata.

«Io a quel punto - è il proposito del segretario del Pd - me ne sto sei mesi a girare l'Italia tenendomi lontano da Roma. Lascerò agli altri, chi ha fatto i guai, a chi non ha capito dove si andava a parare, le gatte da pelare».

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