"Noi sempre trasparenti". Ma la verità su Speranza è un'altra

Il ministro della Salute in Parlamento: "Pubblicati i verbali del Cts e della task force". Ma per ottenerli i deputati hanno dovuto fare ricorso al Tar

"Noi sempre trasparenti". Ma la verità su Speranza è un'altra

Il ministro della Salute ne ha fatto una sorta di bandiera politica personale. L’ha detto, ridetto e scritto nel suo libro mai pubblicato: la trasparenza è la mia stella polare. Il problema è che quello che viene promesso poi andrebbe anche praticato, oltre che rivendicato. Altrimenti si rischia di fare la figura di chi predica bene e razzola male. Fai presto a dire: trasparenza. E infatti oggi in Parlamento Roberto Speranza si è comportato un po’ così: si è auto-incensato sulla “comunicazione trasparente” che il suo ministero avrebbe adottato nei mesi della pandemia, dimenticandosi però di quanto realmente fatto in questo tragico periodo.

Ci proveremo noi a rinfrescare la memoria a gentile ministro di Leu. Partiamo dai verbali del Cts, quelli che oggi sono visibili dopo 45 giorni dallo svolgimento della riunione. “A me non risulta che in nessun altro paese d'Europa ci sia lo stesso percorso di trasparenza che abbiamo in Italia - dice Speranza - Le istituzioni fin dall'inizio della pandemia hanno assicurato una comunicazione trasparente ai cittadini". Primo appunto. In realtà per arrivare alla pubblicazione online dei verbali del Comitato (non si capisce bene perché con un ritardo di un mese e mezzo) l’opinione pubblica ha dovuto fare non poche pressioni. Ricordate? I primi a chiedere di poter leggere quei documenti furono alcuni avvocati della Fondazione Einaudi. Forse Speranza dimentica che all’inizio il governo Conte II rifiutò di renderli pubblici, obbligando la Fondazione a fare appello prima al Tar (vincendo) e poi al Consiglio di Stato (dopo il ricorso dell’esecutivo). Solo prima del “prevedibile esito dell’udienza” l’allora capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, inviò via Pec solo un contentino di cinque verbali. Era il 6 agosto del 2020, cioè sette mesi dopo Codogno. E solo il 4 settembre si arriverà all'apertura totale dei cassetti segreti del Cts, ovvero circa 240 giorni dopo una serie di polemiche e richieste di chiarimento. Un governo “trasparente”, come sostiene Speranza, non si sarebbe mosso un po’ prima? E non avrebbe forse dovuto evitare alla Fondazione Einaudi di fare i salti mortali nelle aule di un tribunale?

Che poi questo non è l’unico caso. Perché lo schema “trasparente” del ministero della Salute si è ripetuto in altri due casi. Protagonista, in questo caso, il deputato di FdI Galeazzo Bignami. Molti mesi fa l’onorevole chiese al dicastero copia del “piano segreto” che il dirigente Andrea Urbani aveva rivelato urbi et orbi in una intervista al Corriere. Il ministero fece spallucce, non rispose, costringendo Bignami a ricorrere al Tar. Direte: a questo punto il ministero della Trasparenza si sarà scusato e avrà fornito tutto quanto richiesto. Macché: prima si è opposto al ricorso, poi ha detto di non avere l’atto, infine ha ribatito che non era un piano pandemico e che la questione non era di sua competenza. Insomma: face melina. Solo quando il Tar lo ha condannato a consegnare il documento, il dicastero si è deciso di rendere tutto pubblico sul suo sito. Non senza annunciare ricorso contro la sentenza.

Stesso discorso per i verbali della task force istituita al ministero della salute a gennaio del 2020. Anche qui Fratelli d’Italia e i familiari delle vittime chiesero di poter leggere cosa si erano detti i super esperti convocati da Speranza. Lo scorso dicembre Bignami provò a domandare una copia con un accesso agli atti, ma venne respinto. Fece di nuovo ricorso al Tar e il ministero (alla faccia della trasparenza) anziché dimostrarsi collaborativo optò per la battaglia legale. Parlò di resoconti non ufficiali, di un tavolo informale, di “brogliacci” non pubblicabili. Insomma: cavilli da azzeccagarbugli. Alla fine però il Tar ha condannato Speranza&co, i quali prima di rendere tutto visibile sul sito hanno tentato l'ultima disperata manovra: cercare a ottenere dal giudice il via libera a “nascondere” i nomi degli intervenienti alle riunioni. Rendendo di fatto inutilizzabili i documenti. Il blitz alla fine non è andato in porto, e i verbali li ha letti tutta Italia, ma il ministero non s’è dato per vinto e ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato. Dice oggi Speranza: “Rispettiamo il lavoro in corso della giustizia amministrativa, ma si tratta di resoconti informali interni non soggetti, dal nostro punto di vista, a obbligo di pubblicazione.

Eppure anche in questo caso abbiamo deciso di pubblicare tutto sul nostro sito”. Certo: solo dopo una condanna del Tar e paginate di polemiche sui giornali. Non proprio il massimo della trasparenza, no?

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