Sono casse avvolte nelle bandiere coi colori dell'Onu e contengono i resti di 55 soldati americani che ieri la Corea del Nord ha restituito agli Stati Uniti. Quei ragazzi non hanno ancora un nome, sono morti combattendo a fianco dei sudcoreani nella guerra della Penisola, dal 1950 al 1953, e nel 65° anniversario della fine del conflitto possono finalmente tornare a casa. Un gesto di distensione da parte del regime di Pyongyang che era concordato nello storico incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un dello scorso 12 giugno: era uno dei quattro punti inclusi nel documento congiunto firmato alla fine del vertice di Singapore.
Quel che rimane delle salme è stato trasportato da un cargo militare della Usa Air Force fino alla base aerea di Osan in Corea del Sud, dove sono state accolte da migliaia di militari americani di stanza lì insieme alle loro famiglie. Tra il 1990 e il 2005, prima che le relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord si deteriorassero, altre 229 partite di resti erano state rimpatriate. Comunque una piccola parte dei 35.000 soldati a stelle e strisce che - secondo i dati del Pentagono - persero la vita nella penisola coreana: 7.700 di loro sono tuttora considerati dispersi, 5.300 dei quali in Corea del Nord.
Ora le ossa dovranno essere analizzate. Probabilmente in un laboratorio delle Hawaii, dove si cercherà prima di tutto di stabilire se davvero appartengono a soldati americani e poi, possibilmente, di dare loro un nome e restituirle ai parenti. Il processo di identificazione, nonostante l'evoluzione tecnologica, potrebbe durare anni.
«Questo sarà un grande momento per tante famiglie» - ha twittato Trump, che ha concluso con un «thank you» rivolto a Kim «per aver mantenuto la parola data». Un ramoscello d'ulivo dopo che, 48 ore prima, Mike Pompeo aveva accusato la Corea del Nord di non rispettare il piano concordato di smantellamento del nucleare: «Continuano a produrre materiale fissile», ha detto - rispondendo alla domanda di una commissione del Senato - il segretario di Stato Usa. La cui terza ondata di colloqui a Pyongyang in cui aveva chiesto una denuclearizzazione completa, verificabile e irreversibile, era stata definita dalle autorità nordcoreana «deplorevole», «preoccupante» e «degna di un gangster».
Gli Stati Uniti da un lato apprezzano i notevoli progressi che sono stati fatti, ma dall'altro sanno che la strada verso l'obiettivo è ancora lunga. L'ambasciatore all'Onu Nikki Haley ha espresso parere contrario rispetto a un allentamento delle sanzioni a Pyongyang, suggerito da Russia e Cina. Al punto che gli Usa hanno bloccato una richiesta da parte del Comitato Olimpico Internazionale di trasferire attrezzature sportive in Corea del Nord affinché i suoi atleti possano prepararsi ai Giochi di Tokyo 2020.
In una lettera del 3 luglio il presidente del Cio Thomas Bach aveva chiesto una deroga per consentire il trasferimento, ma mercoledì Washington ha posto il veto. «Restiamo ottimisti riguardo alle prospettive di denuclearizzazione della Corea del Nord - hanno fatto sapere -, ma ci vorrà la piena applicazione delle sanzioni per ottenerla».
Insomma il gioco delle parti prosegue tra simbolici gesti di distensione e una diffidenza di fondo che comunque rimane. Nel frattempo, altri lotti di resti dei militari americani potrebbero essere rimpatriati nelle prossime settimane.
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