Obama teme le armi ma non l'odio razziale

Dopo la strage di Charleston sconcertano le parole del primo presidente nero. Nove capi di accusa contro l'assassino: il governatore chiede la pena capitale

Dylann Roof, autore della strage di Charleston
Dylann Roof, autore della strage di Charleston

Il governatore della Carolina del Sud, Nikki Haley, ha chiesto davanti alle telecamere la pena di morte per Dylann Roof, prima ancora che ieri il ragazzo si sedesse davanti a un giudice. Sono nove i capi d'accusa che pendono su di lui. Mercoledì ha ucciso con una pistola calibro 45 nove persone riunite in preghiera in una chiesa della comunità afro-americana di Charleston, dopo essere stato seduto con loro un'ora a leggere la Bibbia. Una delle vittime durante quei momenti di raccoglimento ha postato sul social media Snapchat una fotografia della riunione in cui appare, seduto al tavolo, anche il giovane assassino.

Il presidente Barack Obama è tornato a parlare ieri durante un evento di raccolta fondi per il suo partito democratico. Giovedì aveva usato parole dure, ricordando all'America come, a causa della facilità con cui è possibile nel Paese accedere ad armi, stragi di massa simili non accadano in «altre nazioni avanzate». E se il dibattito si è immediatamente e giustamente focalizzato sul controllo delle armi - uno del leader della National Rifle Association , lobby della armi, ha detto ieri sollevando polemiche che se il reverendo della Emanuel Church avesse permesso ai fedeli di entrare in chiesa con le pistole non ci sarebbero stati nove morti - c'è chi insiste che la questione resti però secondaria.

«Questa storia non è sulle pistole, ma sul terrorismo razziale», ha scritto sul Washington Post Jennifer Carlson, professore all'università di Toronto. E lo stesso Obama, ieri, ha dichiarato frustrato: «Sulla questione razziale ho fatto dei bei discorsi, ma i bei discorsi non bastano». Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti non ha mai, neppure in uno Stato carico di una storia legata alla schiavitù e agli odi razziali come la Carolina del Sud, voluto insistere durante la campagna del 2008 sulle differenze tra comunità. La questione però è oggi destinata a entrare paradossalmente nel pieno di quella campagna del 2016 che sancirà l'uscita di scena del primo presidente nero. Non è infatti un caso che poche ore prima della strage di mercoledì il candidato democratico Hillary Clinton fosse a Charleston per un evento elettorale, e che giovedì il suo rivale repubblicano Jeb Bush abbia dovuto cancellare la sua tribuna.

A North Charleston, non lontano dal luogo del massacro, ad aprile è avvenuto l'ultimo di una serie di crimini in cui agenti della polizia hanno usato violenza fatale contro giovani di colore. L'agente in questione - condannato per omicidio perché il suo gesto è stato ripreso da un telefonino - ha ucciso un uomo afroamericano disarmato ferendolo alle spalle. Simili episodi a Staten Island (New York), Ferguson (Missouri) e a Baltimora hanno portato sia a manifestazioni sia a vere e proprie rivolte di strada e sono destinati a riportare il tema razziale nel dibattito politico. E anche l'ultima polemica di queste ore - scattata quando accanto alle bandiere statale e federale davanti al Parlamento di Columbia, capitale della Carolina del Sud, quella confederata non è stata messa a mezz'asta - racconta un clima in cui la questione razziale è viva.

Le controversie sulla necessità di mantenere negli Stati del Sud l'uso della bandiera confederata - che per la comunità afro-americana e molti americani è simbolo dell'era della schiavitù e per alcuni al Sud segno d'appartenenza - è un

dibattito che negli ultimi mesi si è intensificato, finendo persino in una canzone di una delle star più influenti del country, Brad Paisley, in un duetto con il rapper nero LL Cool J: Accidental Racist, razzista per caso.

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