Chi si illude che la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi inneschi una sollevazione popolare o un collasso del regime farà bene a tornare con i piedi per terra. Perché se da una parte la Suprema Guida Ali Khamenei e il suo gruppo di potere contano sull'appoggio di poco più di un terzo della popolazione, dall'altra non esiste un movimento politico o insurrezionale capace di risvegliare dall'apatia (o dalla paura) i due terzi che non si riconoscono più nei precetti della Repubblica Islamica. La morte di Raisi non rappresenta, del resto, un evento capace d'incrinare la solidità del regime. Il presidente dell'Iran, per quanto eletto, non ha alcuna autonomia decisionale. Anche perché la sua candidatura deve sempre superare il vaglio del Consiglio dei Guardiani, l'organo costituzionale pronto a escludere chi non si riconosca nei dettami della Suprema Guida e dell'ordine consolidato.
Dunque morto Raisi se ne farà un altro. E a rendere più complessa l'azione di oppositori e insorti s'aggiunge il congenito nazionalismo degli iraniani restii ad accettare l'azione di gruppi basati all'estero o appoggiati da Paesi stranieri. Proprio per questo l'unico gruppo che ha avuto qualche possibilità di incidere sulla struttura di potere è stato il movimento riformista. Nato all'interno della stessa classe dirigente protagonista dalla rivoluzione khomeinista, il riformismo iraniano si è fatto portavoce di un islamismo moderato e ha vissuto il suo momento migliore tra il 1997 e il 2005 durante i due mandati del presidente Mohammad Khatami. Ma né Khatami né chi ne ha ereditato la vocazione riformista, come l'ex presidente del Parlamento Mehdi Karroubi - candidato alle presidenziali 2005 - o l'ex primo ministro Mir Hossein Musavi, in corsa per la presidenza nel 2009, è mai riuscito a trasformare il dissenso in concreta azione politica. L'apparato repressivo del regime ha fatto il resto. Karroubi nonostante il suo rango di ojjat ol-eslam vive da 14 anni agli arresti domiciliari. Il «movimento verde» guidato da Musavi è, invece, uno sbiadito ricordo del passato. E neppure le dimostrazioni di piazza seguite alla morte della 22enne curda Masha Amini, uccisa per non aver indossato il velo, hanno mai dato vita a un vero movimento politico organizzato. Anche perché arresti e condanne a morte hanno immediatamente spento qualsiasi velleità di ribellione. Ieri, nella città di Masha, la notizia della morte di Raisi è stata accolta da alcuni giovani con feste e fuochi d'artificio. Ma non basta a intravedere un'alternativa al regime. Dunque sopravvive soltanto l'attività, spesso di stampo terroristico, dei vecchi Mujaheddin del Popolo (Mek) o quella - ancor più violenta - di gruppi separatisti locali. Tra questi vi sono il Movimento di Liberazione dell'Ahwaz, in lotta per l'indipendenza della provincia del Khuzestan, e l'Esercito della Giustizia (Jaish ul Adl), un'organizzazione fondamentalista vicina ad Al Qaida responsabile di sanguinosi attentati, che pretende l'indipendenza del Baluchistan iraniano.
Ma nessuno di questi ha la minima possibilità di successo.
I Mujaheddin del Popolo scontano la passata militanza tra le fila dell'esercito di Saddam Hussein e la loro struttura settaria. Inoltre l'attività condotta dai campi in Albania, dove gli Stati Uniti trasferirono i suoi militanti dopo la caduta di Saddam, rende i vecchi Mek completamente estranei all'attuale realtà iraniana.
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