Raccontano che i collaboratori più fedeli di Matteo Renzi avessero programmato il ritorno in massa dentro il partito già da un paio di settimane. Ruoli, compiti, progetti e persino stanze nel palazzo di via Sant'Andrea delle Fratte. Poi i sondaggi sempre meno favorevoli e infine, ieri sera, il risultato disastroso. Tanto da fare pensare a un passo indietro di Matteo Renzi anche dentro il partito. Con la prospettiva delle dimissioni della segreteria del Partito democratico, gli appetiti della Ditta si sono risvegliati e ora il Pd in versione «doc» di Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani intende rivendicare la segreteria e il controllo sul gruppo parlamentare come spoglie di guerra. E già pensa a chi affidare il ruolo di leader del partito. L'identikit è quello di un democratico gradito anche alla maggioranza, ad esempio il ministro della Giustizia Andrea Orlando.
Nei sogni dei dalemiani (lui, D'Alema, dice di interessarsi poco al partito, ma non è vero) e della sinistra bersaniana il cambio della guardia dentro il partito sarebbe dovuto avvenire subito dopo la vittoria del No. Ma la realtà, nonostante la vittoria schiacciante degli oppositori di Renzi e del governo, potrebbe essere diversa.
«Noi oltre a valutare i risultati che arriveranno, convocheremo gli organi del partito nel giro di pochi giorni e già martedì convocheremo la direzione nazionale per l'analisi dell'esito referendario», ha spiegato il vicesegretario Lorenzo Guerini. Quindi Renzi darà un segnale forte al partito. Ma non è escluso che il premier non scelga di lasciare Palazzo Chigi, rinunciando a un reincarico, per arroccarsi nel fortino dem del Nazareno, ambito da entrambi i Pd come trampolino per la rivincita.
L'appello dell'ex segretario Pier Luigi Bersani qualche giorno fa, era per un «Pd aperto, non chiuso in se stesso, che faccia da infrastruttura portante del centrosinistra. Il Pd, da solo, non ce la fa». Bersani vede un cantiere aperto, insomma, per scegliere alleati e, soprattutto il candidato premier per le prossime elezioni politiche. Che chiaramente non potrà essere Renzi.
Proprio per questo Bersani spera che il premier lasci il partito, ma resti in qualche modo a Palazzo Chigi. Alla guida dell'esecutivo in un anno difficilissimo, con una legge di Bilancio da firmare che non potrà che contenere un conto salato. Facile in queste condizioni sfilare deputati e senatori a Renzi e farli schierare con la Ditta e impegnarli a rendere la vita ancora più difficile al premier. Uniche dimissioni richieste, appunto, quelle da segretario del partito.
Se non succederà. Se la direzione sarà, come di consueto, addomesticata, la sinistra interna punterà su un congresso. Primo passo richiedere con forza la separazione tra le cariche di segretario e quella di premier. Poi cercare un candidato in grado di spaccare la maggioranza che in questi mesi ha sostenuto il premier. Ad esempio il ministro della giustizia Andrea Orlando, che si è schierato per il Sì, ma è gradito anche al partito doc.
Per la minoranza Pd è una vittoria contro Renzi, ma anche contro quei democratici della sinistra interna che alla fine avevano deciso di sostenere il Sì, come Gianni Cuperlo. «Oggi si è scritta una bellissima pagina di partecipazione democratica. L'Italia ha dimostrato ancora una volta di essere un grande Paese. Nel campo del No c'è stato un pezzo irrinunciabile del centrosinistra.
Noi lo abbiamo rappresentato dentro il Pd. Il risultato che si preannuncia dimostra che eravamo nel giusto a difendere le convinzioni nostre e di molti militanti e cittadini del centrosinistra», ha commentato Roberto Speranza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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