Una magistratura subdola, se non impazzita, protagonista nell'affaire Polanski in cui l'unica vittima era stata la 13enne Samantha (Geimer) Gailey, torna a far parlare di sé. Perché nel processo americano al regista, risalente a 45 anni fa, niente sembra davvero essere andato per il verso giusto. E più che le ombre sul cineasta, pronto allora a patteggiare ammettendo un rapporto sessuale con una minorenne, risparmiandosi l'accusa di stupro, sono le zone grigie sul comportamento del giudice istruttore Laurence J. Rittenband ad assumere i contorni dello scandalo: perché dopo i 42 giorni di Polanski superati in un carcere californiano con tanto di test psicologici, il giudice si era detto segretamente pronto a virare sull'accanimento giudiziario.
Ben più di una confidenza potrebbe ora cambiare le sorti del caso; o quanto meno l'idea che il cineasta di origini polacche aveva dato di sé fuggendo dagli States. E il motivo sta nella testimonianza resa nel 2010 dal vice procuratore Roger Gunson, che seguì il processo del '77, in cui accusava proprio il giudice istruttore (morto nel '93) di voler incastrare il regista. Tanto che ne chiese a più riprese la rimozione dal caso.
A verbale, Gunson parlò dell'intenzione del giudice di infrangere la promessa fatta a Polanski: accettare il patteggiamento. E condannarlo invece con l'inganno a una pena fino a 50 anni. La trascrizione dell'interrogatorio a cui nel 2010 si sottopose il viceprocuratore era stata secretata. Ma già emersa in parte in un documentario. Diventata pubblica il 13 luglio grazie al Freedom of Information Act, e su input di due giornalisti (Sam Wasson e William Rimple), lo sbobinato integrale dimostra quella malcelata intenzione di infierire sul regista nonostante l'accordo tra le parti. E che Polanski avesse dunque buone ragioni per fuggire in Francia alla vigilia della sentenza, in quanto tradito dal sistema giudiziario Usa.
Nel '78, annusata l'aria e nel dileggio collettivo, Polanski riparò infatti nella sua seconda patria, l'Esagono. E contro la toga mitomane alle prese con una star (accusata nel frattempo da almeno altre 5 donne di aggressione sessuale quando erano minorenni) vittima e carnefice si sono trovati dalla stessa parte. Anche la Gailey, come Polanski, chiede da tempo verità su certi colloqui off the record del giudice Laurence; pronto a far carta straccia del patteggiamento consigliato al regista. Una trappola, secondo l'avvocato di Polanski, Harnald Braun, che rinnoverà adesso la richiesta di far pronunciare la sentenza nei confronti del Premio Oscar senza che quest'ultimo debba rientrare negli Usa, dove teme ancora d'essere arrestato. Il processo in absentia è lungo. C'è l'ipotesi di collegamento di Polanski via Zoom. Braun ha chiesto però che sia un nuovo giudice ad occuparsi del caso. L'attuale, Sam Ohta, «è inutile, inaffidabile», ha detto a Variety, visto che per 12 anni si è opposto alla trascrizione-verità.
Il cineasta è ancora oggetto di un mandato d'arresto internazionale. E se da cittadino francese è protetto dall'estradizione, nel 2009 fu fermato al festival del film di Zurigo. Trascorse 77 giorni in carcere e 221 giorni agli arresti domiciliari a Gstaad, in Svizzera. Nel luglio 2010 le autorità elvetiche negarono l'estradizione revocandogli il braccialetto elettronico. Ora inizia un nuovo capitolo.
Grazie a un altra toga, George Gascon, nuovo procuratore di Los Angeles, che ha dato semaforo verde affinché la Corte d'appello rendesse pubblico il documento-choc: «Dopo attenta considerazione del desiderio della vittima, delle circostanze uniche che portarono alla testimonianza di Gunson e del mio impegno per la trasparenza nel sistema giudiziario».
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