"La più piccola delle virtù ma anche la più forte". Invocata dal cappellano contro la disperazione

Nulla distingue maggiormente l'uomo dalle altre creature. Per Francesco è "la carta d'identità del cristiano. Ha il volto del Signore"

"La più piccola delle virtù ma anche la più forte". Invocata dal cappellano contro la disperazione
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Verrebbe da dire che non c'è moto dell'animo più antico e umano della speranza. Nulla che maggiormente ci distingua da tutti gli altri esseri del creato e al contempo è catalogato come virtù teologale: una delle tre che, per chi crede, mettono in contatto con la Trinità del Cristianesimo, diventando il fondamento dell'agire morale.

E forse proprio per questo ha ieri così colpito quel ricorrere del cappellano don Nunzio Corrao alla «spes contra spem». Non tanto la speranza contro la speranza, come molti hanno velocemente tradotto, ma piuttosto la speranza contro la disperazione. Contro l'assenza di speranza. Perché è nel logos cristiano che sta il vero significato di quel «credo quia absurdum», credo proprio perché è assurdo, dell'apologeta Tertulliano nel II secolo, così come nel comprendere che non si può (e non si deve) comprendere. La miglior lettura della fede considerata paradosso di Soren Kierkegaard, molti secoli dopo.

Ecco allora perché proprio in quella che è stata definita «l'ora della prova», i fedeli si sono spontaneamente recati sotto le finestre illuminate al Policlinico Gemelli e poi sempre più numerosi in Piazza San Pietro. Ci sono andati per poter sperare. Ma in cosa? Innanzitutto nella sconfitta della malattia, di quell'ombra che sta coprendo quel sorriso che Papa Francesco non ha mai fatto mancare, non solo ai fedeli, ma all'intera umanità. Soprattutto a quella più dolente. E qui ecco che a soccorrere, arriva quel «qui contra spem in spem credidit» della Lettera ai romani di Paolo di Tarso, l'incrollabile fiducia del patriarca Abramo che nonostante la sua tarda età e la sterilità della moglie seppe, «nel tempo che Dio aveva fissato» ed esaudendo ciò che aveva desiderato e in cui aveva creduto, di aspettare un figlio.

Ecco perché proprio Papa Francesco ha definito la speranza una «carta d'identità del cristiano». E parlando molte volte di lei, in un Angelus del 2015 l'ha disegnata come «la più piccola delle virtù, ma la più forte». La «più umile delle tre virtù teologali, perché rimane nascosta», ma assicurando, per completare l'affresco, che «la nostra speranza ha un volto: il volto del Signore risorto che viene con grande potenza e gloria (Mc 13 26)». Sottolineando che la speranza non è qualcosa, ma qualcuno. Anzi. Qualcuno, seguendo il Francesco delle Lodi di Dio Altissimo: «Tu sei la nostra speranza!». Ed «Egli non abbandonerà tutti quelli che sperano in lui». Un intreccio indissolubile e affascinante tra uomo, Papa e Dio. Tre protagonisti che dialogano nel momento della prova più difficile, perché perfino a Cristo sulla croce venne da chiedere al Padre perché quella sofferenza dovesse toccare proprio a lui. E in quella sofferenza c'era anche la disperazione di lasciare questo mondo, pur nella certezza di raggiungere il regno di Dio. E allora tutto si mischia, speranza e disperazione, la certezza più solida e il mistero dell'assurdo che però promette salvezza.

Tutto così semplice per chi crede, eppure così difficile da accettare nell'attimo d'ansia che precede la

cruda lettura del bollettino medico e nella preoccupazione che accompagna l'attimo successivo. Tutto così umano, troppo umano se a prenderci all'amo dell'eterno come pesci in mare, non arrivasse proprio lei: la speranza.

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