Anche solo le ultime ore danno la netta sensazione di vivere in quella terza guerra mondiale «a pezzi» di cui parla il Papa: in Libia si chiudono gli spazi aerei, da Gaza altri razzi contro Israele, in Siria e Irak la guerra prosegue tra gli efferati crimini dello «Stato Islamico», Kiev si oppone a un convoglio «umanitario» da Mosca, Washington arma il Vietnam per frenare Pechino nel «mar della Cina». A Istanbul diventa premier il ministro degli Esteri che predica Grande Turchia e allontanamento dall'Europa.
In questa situazione cresce la preoccupazione per le difficoltà della politica americana. Ieri dopo che il generale lord Dannatt, già capo dell'Esercito britannico, ha chiesto di cooperare con Damasco per sconfiggere l'Isis, così si è anche espresso il capo degli Stati maggiori riuniti americani, Martin Dempsey, alla presenza del segretario alla Difesa Chuck Hagel. Solo qualche mese fa Bashar Assad era il principale bersaglio di Washington e ancora qualche giorno fa Hillary Clinton e Barack Obama battibeccavano tra loro sulla via migliore per abbatterlo.
Un protagonista della prima fase dell'amministrazione Obama, Robert M. Gates, già segretario della Difesa con Bush, aveva scritto nel suo libro di memorie ( Duty ) uscito poco più di un anno fa, di atti della Casa Bianca che riflettevano quanto la nuova presidenza comprendesse male esigenze e logiche dell'esercito. E una delle conseguenze principali di queste incomprensioni era stata la liquidazione dell'esperienza di quel David Petraeus che aveva iniziato - correggendo errori dell'amministrazione Bush - una decisiva opera di pacificazione dell'area dell'Irak sunnita divenuta poi il cuore dello «Stato islamico».
Se si considera anche come la Turchia, su mandato Usa, sia stata la protettrice delle primavere arabe con annessi Fratelli musulmani e succursale Hamas e che poi, dopo il fallimento del governo dei «Fratelli» al Cairo, si sia tentato di destabilizzare Recep Tayyip Erdogan favorendone così uno spostamento verso l'Iran nonché l'elezione a presidente della Repubblica, se si riflette sul fatto che l'unica speranza per evitare un conflitto ampio in Ucraina sia oggi Angela Merkel, si ha un'idea più precisa di un qualche smarrimento della politica estera a stelle e strisce.
Naturalmente oggi ancora solo gli Stati Uniti garantiscono una difesa delle democrazie nel mondo - come si è visto anche a Mosul. E solo Janet Yellen, presidente della Fed d'intesa con Mario Draghi (assai più legato agli americani che ai tedeschi) può favorire quella ripresa economica troppo spesso ostacolata dalla politica di Berlino. Nonostante ciò però, oggi «l'amico americano» ha più di un problema a definire una linea di stabilizzazione qualificata: mancanza di un'analisi adeguata? Troppa fiducia nei propri mezzi? Una spinta eccessiva a semplificare la governance mondiale da parte di una nazione tentata dall'isolazionismo? Questo stato di cose è avvertito dagli alleati più fedeli nella lunga stagione della Guerra fredda: si è detto dei turchi ma ciò vale anche per israeliani, sauditi, e persino per i britannici. Anche nuovi ultrafan di Washington come i polacchi se ne sono lamentati (il che con malizia è stato fatto filtrare probabilmente dallo spionaggio russo).
E ciò vale anche per noi italiani, ricorrente oggetto di pluriverse destabilizzazioni.Insomma come per tutto il Novecento solo gli americani possono salvarci. Hanno bisogno però di amici che salvino un po' anche loro dagli errori peggiori.
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