Non è più l'infantile diavoletto, a far litigare Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Bensì quell'ombra greve di sospetto e sfiducia che ha incrinato il rapporto personale e sta minando il governo. La stessa ombra che aleggiava durante la furibonda litigata dell'altra notte, quando a Palazzo Chigi le bocche urlavano «Salva Roma» ma le orecchie percepivano «mafia».
La guerra dei 5stelle contro la Lega si può definire «totale» proprio perché non ha esitato a toccare uno dei fili ad alta tensione della Repubblica, la più infamante delle accuse. Salvini ne ha avuto la percezione precisa, l'altra notte, ed è da lì che ha capito di non poter più restare chiuso in trincea. «Chiunque accosti la Lega alla mafia, alla camorra e alla 'ndrangheta si deve sciacquare la bocca, con la mafia non abbiamo nulla a che vedere», ha reagito. Pur sapendo di poter così concedere a Di Maio una facile replica: «Se la Lega non c'entra niente, dimostri la sua estraneità allontanando Siri dal governo». Scambio che fa capire bene come Di Maio abbia deciso di spingersi fino al limite di una crisi di governo che, entrambi, ovvio, negano recisamente. Il caso Siri non è «un caso qualunque»: Di Maio lo dichiara, i 5s lo fanno capire dalle offese dirette nonché dallo stillicidio di maldicenze sull'attività del sottosegretario. E proprio mentre da Palermo arriva la notizia della richiesta, da parte della Dda, di 12 anni di carcere per l'imprenditore Vito Nicastri, «socio occulto» di Arata e dunque l'origine dell'impronunciabile (e presunto) legame tra settori del governo e ambienti di Cosa nostra. Tema che goffamente sta cercando di cavalcare persino il fratello del commissario Montalbano, alias il leader del Pd, Nicola Zingaretti.
Ma il punto d'equilibrio che tiene in piedi la situazione gravita in queste ore a Palazzo Chigi, dove il premier Giuseppe Conte ha dovuto assumere un mandato a decidere, in qualità di Re Salomone, pur di scongiurare la crisi. «Voglio vedere Siri negli occhi, sentire le ragioni, acquisire elementi prima di valutare e prendere una decisione», ha spiegato Conte, in partenza per la Cina. Ieri c'è stato un primo contatto telefonico per concordare l'incontro chiarificatore al suo rientro. A Salvini, che ieri negava fosse già arrivata dal premier una richiesta di far dimettere Siri, Conte ha voluto offrire la rassicurazione di una valutazione senza pregiudizi, perché «Siri ha tutto il diritto a non essere infangato». Dalle sue parole, però, si deduce che «si possono prendere decisioni anche prima di una sentenza passata in giudicato perché la politica ha una sua logica». Resta stretto, il sentiero di Conte, tra il giustizialismo dei 5S e il garantismo salviniano ieri tornato a confidare nell'opera dei magistrati «perché né io né il premier facciamo il giudice...».
Per Di Maio un ennesimo invito a ergersi Pm: «C'è una gran bella differenza tra garantismo e paraculismo. Per noi se una persona viene arrestata o indagata per corruzione deve lasciare. Se non lascia, lo accompagniamo noi fuori dalla porta. Senza aspettare i magistrati».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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