Pressioni dal Pakistan per fargli ritrattare le accuse o non farlo testimoniare al processo contro i familiari ritenuti responsabili di aver ucciso sua sorella Saman, colpevole di essersi opposta ad un matrimonio combinato. Il fratello della studentessa pakistana fatta sparire da Novellara, in provincia di Reggio Emilia, nel maggio del 2021 e trovata morta lo scorso novembre nei pressi di un casolare, testimone chiave del dibattimento in corso davanti alla Corte d'Assise nei confronti dei parenti imputati - il padre Shabbar Abbas, lo zio Hasnain Danish, i cugini Nomanulhaq Nomanulhaq e Ijaz Ikra e la madre Nazia Shaheen, l'unica dei cinque ancora latitante - sarebbe stato oggetto di ripetute minacce dal Paese d'origine, dove ha mantenuto i contatti con la madre e altri componenti della famiglia. Pressioni per evitare che venerdì - quando è prevista la sua testimonianza in aula - il giovane confermi le accuse già formulate e ribadite nel corso di un incidente probatorio, sulle quali la Procura ha aperto un'indagine contro ignoti, i cui atti sono stati depositati in Corte d'Assise.
Tra la documentazione raccolta dai carabinieri ci sono copie dei messaggi e delle chat tra lui e i familiari in patria, che avrebbero portato avanti un'incessante operazione di convincimento psicologico, soprattutto a ridosso dell'estradizione in Italia del padre Shabbar Abbas. È stato lo stesso ragazzo, nel frattempo diventato maggiorenne, a fornire volontariamente il materiale sul quale i magistrati hanno ritenuto di effettuare accertamenti. Dai messaggi emerge come il giovane abbia mantenuto i contatti con la madre Nazia Shaheen, attraverso il profilo social di una parente, che ha fatto da intermediaria, con diversi accorgimenti per non farsi localizzare. Nei mesi scorsi la donna avrebbe tentato di convincerlo a non dire nulla su quanto successo, a lasciare l'Italia per andare in Pakistan da lei o in altri Paesi europei, così da evitare la testimonianza. Il racconto del 18enne è stato determinante per chiudere il cerchio sulla vicenda di Saman, confermando le ipotesi degli investigatori sulle responsabilità dei familiari della studentessa, da sempre contrari al suo modo di vivere troppo all'occidentale. In particolare dello zio Danish, che sarebbe stato l'esecutore materiale del delitto.
Parlando con la mamma, il ragazzo si era mostrato preoccupato nei giorni in cui il padre stava per esser estradato. Tanto da fargli dire, ad un certo punto, che davanti aveva solo due opzioni: «Morire prima dell'8 settembre» (quando era inizialmente fissata la sua testimonianza, poi rinviata al 27 ottobre) oppure «tutta la vita in carcere», alludendo presumibilmente al destino dei suoi familiari. Ad inizio settembre la parente era intervenuta per convincerlo a ritrattare, facendo leva sulla possibilità che rimanesse isolato dal resto della famiglia. Il giovane era però apparso infastidito da questi tentativi. Le trascrizioni dei dialoghi da poco depositate in Corte d'Assise, dimostrano tutta la sofferenza e la disperazione del ragazzo, all'epoca sedicenne. Come il 5 giugno, parlando sempre con la madre, disse che «potevano andare tutti all'inferno»: «Se non c'è più mia sorella allora non c'è più nessuno. Stai in silenzio».
In un'altra telefonata, del 14 giugno, prima che venisse estradato, il padre aveva cercato di convincerlo ad addossare la colpa ad un altro parente, diverso dai cinque imputati: «Tu devi dire che Danish e gli altri non hanno nessuna colpa, lui (l'altro parente, ndr) è venuto a casa nostra e ha detto che ci penso io ad ammazzarla, tu così devi dire... adesso dobbiamo incastrare a questo qui». Il giorno, dopo la madre aveva cercato di dirgli che Saman non era morta: «Ascoltami, tua sorella è qui. Dio farà il bene, lei tornerà».
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