La provocazione del cercapersone

È questo il regalo fatto dal premier israeliano Bibi Netanyahu al presidente Trump, durante la sua visita a Washington

La provocazione del cercapersone
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Un cercapersone dorato, la scritta «premere con entrambe le mani», il chiaro riferimento all'operazione militare con cui a settembre Israele fece esplodere simultaneamente migliaia di dispositivi elettronici appartenenti a membri di Hezbollah in Libano, uccidendo almeno 37 persone di cui 12 civili. È questo il regalo fatto dal premier israeliano Bibi Netanyahu al presidente Trump, durante la sua visita a Washington. Se per Donald «fu una bella operazione», in molti hanno visto nel cadeau di Bibi un risvolto inopportuno: si può esaltare un messaggio di morte?

Lo è stato per il vagone di Compiègne - dove nel 1918 fu firmato l'armistizio tra la Germania e le potenze alleate; la carrozza fu poi «rubata» da Hitler e distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale -, lo è, molto più beceramente, per uno striscione rubato allo stadio agli ultrà avversari: ogni simbolo, ogni vessillo diventa motivo di tensione, di rivalsa, di vendetta.

Sgombriamo il campo da ogni dubbio: l'operazione in Libano del Mossad è stata un'operazione di guerra. Brutta, cattiva, crudele, ma sempre guerra rimane. L'Onu la stigmatizzò come una «violazione del diritto umanitario»; secondo Israele rappresentò «una svolta» nella guerra contro Hezbollah. Quello che stride, semmai, è l'esaltazione del gesto. Nel mondo moderno, anche un conflitto è fatto di comunicazione. Il marketing della guerra, lo chiamano. E non è inconsueto che le vittime passino per oppressori e gli oppressori per vittime.

Esistono già simboli che ricordano le sofferenze del popolo ebraico: le pietre d'inciampo, i sassi sulle tombe, il Giardino dei Giusti. Servono a non dimenticare le atrocità dell'Olocausto, le deportazioni, i milioni di morti. Celebrare, al contrario, un'azione militare - sebbene condotta contro il peggiore dei nemici - è anch'essa un'arma. Il rischio è che sia a doppio taglio.

Fin dal giorno dell'insediamento di Trump a Washington, la leadership politica di Hamas aveva riconosciuto al tycoon il merito di «aver messo fine» alla guerra nella Striscia di Gaza. C'è dunque una tregua tenuta insieme da fili sottilissimi: reciderne anche uno soltanto può far ripiombare il Medioriente in una nuova fase di conflitto e morti.

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