«Come il diritto culmina nel giudizio, così il giudice finisce per giudicare anche il legislatore», scriveva negli anni Quaranta il grande avvocato Francesco Carnelutti. Allora il giudice si «ribellava» al legislatore operando a suo dire «una santa soperchieria», per far valere esigenze di superiore giustizia sostanziale. Un abuso formale ma «santo» perché salvaguarda quest'ultima esigenza. Dalla giustizia sostanziale però siamo passati all'azione politica. E proprio l'immigrazione è diventato il terreno di caccia peggiore per questa contrapposizione. Più le norme sono complesse, più è facile che il giudice che ha una soggettiva visione politico-ideologica la introduca nell'interpretazione normativa. Se si è dimostrato un azzardo creare le sezioni Immigrazione, diventate un feudo per le toghe più ideologiche di Magistratura democratica, pare ancora più complesso - per la riuscita dell'obiettivo, ovvero l'emergenza sicurezza e i rimpatri accelerati (oggi quelli effettivi sono il 20% e dopo molti anni) - assegnare queste procedure alle Corti d'appello, già intasatissime. E come abbiamo visto lo spazio in questa confusione per le toghe è enorme, i margini di manovra per la politica sono pochissimi.
Basti pensare a come è stata interpretata la recente sentenza della Corte di Giustizia Ue: dice che la Moldavia non può essere frazionata territorialmente (escludendo la Transnistria, di cui si discute nel verdetto dello scorso 4 ottobre): o un Paese è sicuro o non lo è. A deciderlo è lo Stato, il giudice può dire «pur essendo sicuro, rispetto a quella persona non è sicuro per questi motivi». Ma serve una «allegazione rinforzata» di notizie e ragioni oggettive ma soprattutto soggettive per sostenerlo, come ha ribadito la sesta sezione della Cassazione.
Certo, è vero che anche la norma primaria, come il decreto con la lista dei Paesi «sicuri» è subordinata alla norma Ue, lo prevede l'articolo 117 della Costituzione. L'articolo 19 del trattato Ue ribadito nell'articolo 267 del Trattato sul funzionamento della Ue stabilisce che Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale «sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione». Mettere la lista come fonte primaria salva la decisione dal diritto Ue. Ma un conto è disapplicare la legge in nome del diritto Ue come è successo a Roma e a Catania con sentenze fotocopia, un conto è chiederne la giusta applicazione. «Perché l'Anm ha protetto il giudice di Bologna e non nella Capitale dalla Silvia Albano, presidente di Md? - si chiede ironicamente un magistrato contattato da Giornale - Perché la richiesta del Tribunale di Bologna è quella più corretta: invocare la Corte per chiedere l'interpretazione dell'articolo 37 anche sotto il profilo soggettivo».
A colpi di sentenze creative e giurisprudenza interpretativa si è allargata a dismisura l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, tanto che il nostro sistema di asilo ormai è aperto a tutti. Le tutele esistono per chi ha subito mutilazioni genitali, crimini religiosi, gli sfollati climatici, naturalmente al rifugiato che rischia la vita in Patria per religione, razza, motivi politici o sessuali. Nessun Paese musulmano è sicuro per i gay, basta dichiararsi tale e il gioco è fatto. Giustamente viene concesso asilo a chi invoca la «protezione sussidiaria» perché fugge dalla guerra o da chi spadroneggia in alcune zone del Paese (vedi la Nigeria, esclusa dalla lista). Ma ad allargarsi sono state le maglie della «protezione umanitaria», un'ipotesi residuale che si è via via allargata con sentenze che hanno sublimato «il diritto a un'esistenza privata libera e dignitosa» che anche un Paese come l'Egitto o il Marocco naturalmente possono compromettere.
Di recente la Cassazione ha dato il diritto d'asilo a chi aveva manifestato «la seria intenzione di integrazione, anche senza un lavoro a tempo indeterminato». Manca solo il cartello in frontiera con scritto «Entrate pure, da questa parte».
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