Presidente di Assoambiente, già segretario e presidente di Legambiente oltre che ex deputato, Chicco Testa è da sempre una voce critica rispetto alle transizione energetica a tappe forzate imposta dall'Ue.
Qual è il suo bilancio del Green Deal e cosa si aspetta dall'ingresso dei Verdi nella maggioranza europea? C'è il rischio di un approccio sempre più ideologico?
«Fino adesso il bilancio non può certo dirsi esaltante. A fronte di una riduzione delle emissioni di CO2 pari a circa un 1% l'anno negli ultimi 30 anni, è del tutto fallita la scommessa di regalare all'Europa una leadership tecnologica sulla materia ambientale. Non è avvenuto né per le auto elettriche, né per le rinnovabili, né per le batterie, con Cina e Stati che hanno ottenuto obiettivi decisamente migliori. Se c'era un campo dove avevamo un vantaggio competitivo era il nucleare francese, ma si è fatto di tutto per ammazzarlo. Inoltre non si è realizzato neppure il presupposto che la transizione energetica potesse realizzarsi senza costi sociali, così come non siamo riusciti a contenere il prezzo dell'energia, anche per la crisi ucraina».
Nel suo discorso Ursula von der Leyen parla di una riduzione delle emissioni del 90% entro il 2040. È un obiettivo plausibile?
«Ha fatto un discorso molto abile, cercando di accontentare un po' tutti. Negli ultimi 30 anni abbiamo ridotto le emissioni di circa il 30%. Per raggiungere una riduzione del 90% entro il 2040 dovremmo abbattere le emissioni ad un tasso dell'11% annuo con un'accelerazione di 10 volte superiore rispetto al passato. È una mission impossible. Quella promessa è un contentino per il voto dei Verdi, ma von der Leyen ha citato anche la neutralità tecnologica - suscitando le ire della sinistra italiana - e ha usato toni pragmatici verso l'industria promettendo che si occuperà di loro».
Perché il concetto di neutralità tecnologica è così inviso ai Verdi?
«Perché vogliono solo le rinnovabili. Ma le due cose non si tengono insieme, perché se davvero vuoi perseguire l'obiettivo del 90% devi cercare di mettere in campo qualcosa di concreto, senza limitarti a misure fatalmente insufficienti e irrealistiche. Così come è irrealistico il Piano Nazionale per l'Energia e il Clima del governo perché dovremmo fare entro il 2030 ciò che non abbiamo fatto negli ultimi 15 anni. Il punto è che il Green Deal così come è impostato rimane una camicia di forza, tant'è che l'industria europea ha avuto una reazione sconcertata. Dobbiamo capire che c'è un serio problema di competitività. Stiamo mettendo in crisi con queste politiche settori strategici come il cemento, le acciaierie, abbiamo messo in ginocchio l'automotive con l'idea del tutto elettrico. Bisogna rendersi conto che il processo è lungo e va preservata la competitività delle imprese europee. Senza dimenticare che se Trump vince ed esce dagli accordi di Parigi con chi la facciamo la transizione energetica? Con la Cina?».
Giorgia Meloni ha votato contro il programma presentato dalla von der Leyen denunciandone soprattutto l'approccio anti-industriale. C'è il rischio di un contraccolpo per l'Italia?
«Considero questo voto molto meno drammatico di come è stato raccontato, sono d'accordo con quanto sostiene Lucia Annunziata sul Foglio. Giorgia Meloni si trova nella difficile condizione di essere un capo di Stato e il leader di una forza politica, all'opposizione di una coalizione fatta da Popolari, Verdi e Socialisti. Ha prevalso il suo ruolo politico, ma credo che il futuro dell'Europa si baserà su maggioranze variabili. Molti dubbi sono presenti nel Partito Popolare, di gran lunga la forza più importante nel Parlamento.
Se il Green Deal sarà improntato al pragmatismo bene, ma se si continueranno a perseguire gli estremismi, come con le case green e l'auto elettrica a tutti i costi, allora Meloni si troverà a condividere buona parte del suo programma e delle sue scelte con il Ppe».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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