Questo accordo non cancella l'equivoco: non è un grande paladino della libertà

La propaganda liberal ha trasformato un ladro di segreti di Stato in eroe del giornalismo. Il metodo Wikileaks era rubare documenti

Questo accordo non cancella l'equivoco: non è un grande paladino della libertà
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Julian Assange si risparmia il rischio di venir estradato e processato. Ed anche quello, non proprio indifferente, di finire all'ergastolo negli Stati Uniti. Joe Biden quello di perdere tutti quegli elettori allineati con la sinistra del Partito democratico che - oltre ad andar in brodo di giuggiole per Hamas - continuano a considerare il fondatore di Wikileaks un intoccabile paladino della libertà. L'accordo raggiunto dagli avvocati di Assange e dall'amministrazione americana insomma accontenta tutti. E permette al grande imputato di tornarsene nella sua Australia.

Ma l'accordo non cancella il grande equivoco generato in questi anni dalla martellante e irriducibile propaganda cara alla sinistra «dem» e «liberal». Una propaganda riuscita nel non facile compito di trasformare un ladro di segreti di Stato in uno strenuo difensore della libertà. E di un non meglio specificato diritto alla verità. E qui sta il grande equivoco. Perché se è vero che il fondatore di Wikileaks non merita, in fondo, di finire i suoi giorni in un penitenziario federale è altrettanto vero che non merita neppure di venir considerato un giornalista. Partiamo dunque da quello che lo differenzia dalla nostra seppur decaduta categoria. Per capirlo basta confrontare la vicenda Wikileaks con un caso scuola del giornalismo internazionale come il Watergate. In quel caso i giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein divulgavano, ma prima verificavano e selezionavano, quanto gli veniva rivelato e passato dalla loro «gola profonda» ovvero da un funzionario governativo al corrente di come l'amministrazione Nixon stesse cercando d'insabbiare lo scandalo del Watergate.

Le famose inchieste di Wikileaks seguivano invece un metodo completamente opposto. E ricordano non tanto il lavoro dei giornalisti Woodward e Bernstein, quanto piuttosto quello degli scassinatori pagati dall'amministrazione Nixon per sottrarre i documento del comitato elettorale democratico, situato nelle stanze dell'Hotel Watergate. L'unica differenza sta nei mezzi usati. I malfattori assoldati dagli uomini del presidente usavano dei veri e propri grimaldelli e scassinavano materialmente porte, maniglie e serrature. Julian Assange usava i grimaldelli virtuali, messi a punto durante la sua precedente carriera di hacker, per infrangere le protezioni di database e archivi e per far razzia di documenti coperti dal segreto di stato. E malgrado la dichiarata (ma mai provata) nobiltà delle sue intenzioni le conseguenze rischiavano di rivelarsi tragiche.

Quando si trattava di divulgare in rete i documenti sottratti a comandi militari, governi e ambasciate Assange si guardava bene dal garantire la sicurezza delle persone citate, ma lasciava che nomi e cognomi facessero il giro del mondo. Con conseguenze non proprio piacevoli, tanto per fare due esempi concreti, per gli afghani e gli iracheni che collaboravano con gli americani. O per gli agenti - non più segreti - smascherati da Wikileaks mentre lavoravano sotto copertura.

Da questo punto di vista dunque gli Stati Uniti avrebbero qualche buona ragione per processare il signor Wikileaks. Ma nel mezzo del durissimo scontro elettorale con Donald Trump più delle buone ragioni giudiziarie valgono i voti dell'indignata sinistra del partito democratico.

Voti che Biden butterebbe letteralmente alle ortiche se si sognasse di riportare in manette e mettere sotto processo l'uomo che tanti suoi elettori continuano a venerare come un eroe dei diritti civili e un simbolo della libertà d'informazione.

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