Il racconto lucido di una vita a pezzi tra flashback e la "villa-prigione"

Eccezionali trucco e mimica di Favino, molto belli i dialoghi con i familiari. Durissimo il discorso sull'Italia e i magistrati

Il racconto lucido di una vita a pezzi tra flashback e la "villa-prigione"

Pedro Armocida

«Il presidente bambino», «il figlio del presidente», «la moglie del presidente», «l'amante» e così via. Da qui bisogna forse partire per tentare un'analisi dell'ultimo lavoro di Gianni Amelio, Hammamet, incentrato sugli ultimi mesi di vita di Bettino Craxi malato (Pierfrancesco Favino, voce, trucco e gesti di impressionante aderenza) senza però che il grande statista venga mai nominato (il massimo è «il caso C. non è chiuso»). I nomi dunque. Ce ne sono solo tre di persona, Anita, Fausto e Vincenzo. Per i primi due, non a caso, si tratta di figli, Anita - sì Garibaldi (Livia Rossi, brava e poco valorizzata al cinema) - sarebbe Stefania Craxi e Fausto (Luca Filippi) il figlio di Vincenzo (Giuseppe Cederna) presumibilmente il tesoriere del Partito socialista italiano. Ancora una volta il cinema di Gianni Amelio (dal suo primo Colpire al cuore) si gioca tutto intorno a figure paterne e filiali, putative o meno («Restare senza figli è la cosa più atroce» dice Craxi alla figlia).

Poco dopo la sequenza iniziale, ambientata nel 1989 durante l'apoteosi del 45° Congresso del Psi all'Ansaldo di Milano, il film si sposta immediatamente ad Hammamet dieci anni dopo. Amelio non cede mai alla tentazione di un flashback, di un'immagine dell'epoca che non sia un pezzo di tv di sguincio o appena orecchiata, regalando al film un'asciuttezza esemplare un po' appesantita però dalla sequenza onirica finale di Craxi in cima al Duomo troppo debitrice, e meno efficace, di quella di Moro che passeggia all'Eur in Buongiorno, notte di Marco Bellocchio. Invece il film è capace di rappresentare e muovere tutto un mondo solamente da dentro la «villa-prigione», grazie all'interpretazione magistrale di Favino ma anche ai dialoghi (molto belli) con la figlia, con il nipote che porta un berretto garibaldino e che lui chiama «generale» e con Fausto, misterioso personaggio che appare per portare una lettera del padre suicida. Forse è il figlio che avrebbe voluto (a quello suo dà del «cretino» anche se si commuove quando gli canta Piazza grande di Dalla in una sequenza molto bella) o magari è solo l'escamotage narrativo - il ragazzo lo intervista con una telecamera - per fargli dire le cose che pensa sull'Italia.

Perché Hammamet prende posizione, eccome, sul nostro Paese visto da un contumace eccellente. Difficile per un pubblico che non conosce Tangentopoli cogliere molti riferimenti ma certo la «requisitoria» del presidente sulla magistratura che ha preso il posto della politica con metodi pure discutibili («C'è stato uno che ha detto: Chiudo la cella e faccio fondere la chiave») arriva forte e chiara.

Hammamet è un film che colpisce al cuore, dell'Italia, del nostro carattere atavico (a proposito delle monetine lanciategli contro, Craxi chiede ironico: «Dove le avete prese? Dal salvadanaio dei vostri figli?»).

Un Paese in frantumi come i vetri della finestra che il presidente bambino rompe con la fionda all'inizio e alla fine del film.

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