La posta in gioco nella contesa tra le due anime del Partito democratico non è la sopravvivenza del governo Gentiloni. In ballo c'è il futuro politico di Matteo Renzi. La spaccatura tra renziani e minoranza va molto al di là dei programmi politici e delle polemiche sulla data del prossimo congresso. Ed è tutta nelle parole pronunciate da Michele Emiliano, presidente della Puglia e pretendente alla segreteria, di fronte alla platea del teatro Vittoria di Roma. «Può anche darsi che Renzi si convinca che è meglio non candidarsi più a segretario, e a quel punto si potrebbe investire su un'unica personalità che valorizzi tutti. Non voglio rinunciare al sogno del Pd solo per l'arroganza, la prepotenza di chi pensa di cancellare tutto per calcolo politico». Frasi dure, che raccontano come meglio non si potrebbe la guerra tra bande in corso nel principale partito della sinistra italiana. Emiliano detta le condizioni: subito la conferenza programmatica, congresso in autunno e sostegno fino al 2018 all'esecutivo in carica. Quest'ultimo punto è stato rivendicato dall'ex sindaco di Bari come un successo personale in un post su Facebook, pubblicato ieri mattina poco prima dell'inizio della riunione delle minoranze: «Adesso che abbiamo convinto Renzi a sostenere Gentiloni fino alla fine della legislatura, possiamo darci il tempo di riconciliarci e trovare le ragioni per stare ancora insieme». Di congresso lampo, la minoranza non vuole sentire parlare. Lo dice chiaro Roberto Speranza, ex capogruppo dei democratici alla Camera: «Il congresso rischia di ridursi a un nuovo plebiscito, indetto da un capo arrabbiato perché ha perso il plebiscito vero. Dico sin da ora che non mi interessa partecipare». Non le manda a dire neppure Enrico Rossi, presidente della Toscana e principale organizzatore della kermesse: «Noi siamo qui perché intendiamo rinnovare la cultura e il programma del Pd. Invece ci si chiede di fare un congresso che sia una conta per riconsegnare nel più breve tempo possibile la guida del partito al segretario. Noi non ci stiamo».
La minaccia di andarsene sbattendo la porta è più esplicita che mai. Dice ancora Emiliano: «Non costringete con argomenti capziosi questa comunità ad uscire dal Pd. Noi speriamo di non dover dire cose drammatiche nelle prossime ore ma se dovesse essere necessario non avremo paura». L'ultimatum è chiaro. O se ne va Renzi, o andiamo via noi.
Lo strappo, ufficialmente, non c'è ancora. Le opposizioni interne temporeggiano. Ributtano la palla nel campo del segretario. «Abbiamo preso una posizione comune non oggi, ma da molto tempo, ben espressa nell'appello di due giorni fa di Pier Luigi Bersani. Ora spetta al segretario del partito dare una risposta altrettanto chiara», dice malevolo Massimo D'Alema a margine dell'assemblea. L'ex sindaco di Bari, dal canto suo, assicura che l'obiettivo non è costruire «un soggetto avversario del Pd». I renziani, che hanno mangiato la foglia, non ci stanno: «Questa mattina toni e parole che nulla hanno a che fare con una comunità che si confronta e discute. Gli ultimatum non sono ricevibili», ha scritto su Twitter il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini.
Ha detto la sua anche Matteo Orfini, presidente del partito: «Si minaccia la scissione nel nome del governo, quando invece questa ne restringerebbe il consenso parlamentare mettendolo a rischio. Se Renzi è il problema di questo partito, spetta alla nostra comunità valutarlo».
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