Resa dei conti Pd dopo il flop in Senato "Questa legnata ci serva da lezione"

La capogruppo Malpezzi prova a offrire le dimissioni: respinte

Resa dei conti Pd dopo il flop in Senato "Questa legnata ci serva da lezione"

Le conclusioni ufficiali sono rosee: discussione «vivace», ma alla fine «tutti compatti» con «spirito unitario» ancorché «pluralista» verso il sol dell'avvenire e le elezioni per il Quirinale.

In realtà, l'assemblea a porte chiusissime (non sono stati ammessi gli staff né gli interventi da remoto) è stata aspra, tra giudizi duri sulla gestione della partita del ddl Zan e sulla linea «ondivaga» del segretario Enrico Letta. Tanto che la capogruppo Simona Malpezzi, consapevole che il clima fosse molto teso, ha giocato d'anticipo offrendo, al termine della sua relazione, le dimissioni: «Se non c'è più la fiducia del gruppo suo mio operato, sono pronta a farmi da parte». Un modo abile, riconoscono gli stessi critici, per stoppare la fronda e essere riconfermata con un applauso dall'assemblea.

Ma questo non ha impedito che i malumori venissero a galla: «Abbiamo incassato una sconfitta politica al termine di una battaglia che abbiamo gestito male, e nella quale il gruppo non è stato coinvolto - ha accusato Valeria Fedeli - avremmo dovuto riunirci prima del voto, invece l'ultima assemblea del gruppo risale a luglio». Più di uno ha denunciato il «commissariamento del gruppo» da parte del Pd, che ha affidato il ruolo di mediatore a un deputato come Zan che «nulla conosce degli equilibri di Palazzo Madama», e che infatti non ha cavato un ragno dal buco.

Durissimo anche l'ex capogruppo Andrea Marcucci, che fin dalla scorsa primavera avvertiva inascoltato che i voti, a scrutinio segreto, non ci sarebbero stati: «Questa legnata ci serva di lezione - avverte - perché per il Quirinale servirà davvero un campo largo e non possiamo permetterci di perdere neppure un voto». E poi, rivolto al Nazareno: «Bisognerebbe ricordare al segretario Letta che i gruppi parlamentari hanno una loro autonomia: siamo andati a sbattere perché non l'abbiamo esercitata». Al leader dem è stato chiesto conto da più voci del «cambio improvviso di strategia». «A maggio era venuto qui a dirci che della legge Zan non si poteva toccare una virgola. Poi a ottobre, alla vigilia del voto, ha detto che invece bisognava trattare: cosa era cambiato? Perché abbiamo mutato posizione? Nessuno ce lo ha spiegato, e del resto non abbiamo avuto notizia di nessun tentativo di mediazione reale: ci siamo precipitati verso il voto segreto senza rete». A difendere la «bella morte» del ddl Zan è stata la solita Monica Cirinnà: «É stato giusto morire in battaglia: avete visto le piazze pro-Zan? Ecco, quelle sono tutte con noi».

Chiosa Marcucci: «Quindi Letta non ha sbagliato niente e il ddl non è diventato legge perché siamo stati bravi? Un grande partito dovrebbe riconoscere i propri errori e le sconfitte». Il corpaccione dei senatori, però, è rimasto in silenzio. Ed è proprio quel silenzio, più delle aperte contestazioni, che deve preoccupare Letta in vista del voto di gennaio per il Colle.

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