Sia pur «turandosi il naso», sia pur «in modo critico» e solo per «lealtà» e per amore della «Ditta», la sinistra Pd si accinge a dare via libera in Senato - tra stasera e domattina - al Jobs Act di Matteo Renzi, con tanto di ridimensionamento dell'articolo 18.
Da due giorni si susseguono incontri, riunioni e tentativi di mediazione con il governo da parte della minoranza democrat, che vorrebbe almeno veder recepiti nel testo della delega alcune sue proposte di modifica, ma la conclusione - come era prevedibile - è stata che di fronte ad un voto di fiducia, e in un Senato dove il governo è appeso ad una manciata di voti di maggioranza, non si poteva che piegarsi e votare comunque compatti il provvedimento che oggi Renzi vuol portare al tavolo del vertice Ue e presentare alla Merkel come prova del fatto che l'Italia è in grado di far in tempi rapidi le riforme. «Non temo agguati, sono convinto che tutti i senatori voteranno la fiducia, come è sempre accaduto - dice il premier -. Nel Pd abbiamo fatto un lavoro molto serio, ci siamo parlati, ma io credo che ad un certo punto si deve decidere e votare».
Il più inviperito, ieri, era l'oppositore interno ad oltranza Pippo Civati. Furioso non tanto con Renzi che, dice, va per la sua strada e fa «le sue riforme di destra», quanto proprio con il resto della minoranza: «C'è stata una gestione demenziale di questa vicenda da parte dell'area bersanian-dalemiana», sbotta, «avevano le armi necessarie per costringere il premier a trattare, minacciando seriamente di non votare la delega senza sostanziose modifiche, e invece da una settimana sono loro, Bersani in testa, a chiedergli di mettere la fiducia per avere l'alibi». Racconta di aver proposto una strategia unitaria al fronte anti-renziano del Pd: «Bastava fare un documento con quaranta firme di senatori Pd che davano l'aut aut, e Renzi avrebbe dovuto ascoltarci». Anche a costo di votargli contro e far cadere il governo. «Certo: tanto è chiaro che non si sarebbe andati ad elezioni anticipate, prima della legge di stabilità e in pieno semestre europeo. Napolitano avrebbe rinviato Renzi alle Camere, e noi avremmo potuto ridiscutere l'intero programma di governo».
Quanto il piano civatiano fosse praticabile è incerto. Di sicuro però non ci si è neppure provato, e ora il Pd intero - salvo una manciata di civatiani che usciranno dall'aula - voterà la fiducia su una delega più o meno in bianco al governo, anche se il ministro del Lavoro Poletti oggi sarà in Senato, di ritorno dal vertice di Milano, e si impegnerà a recepire alcune delle modifiche proposte nei decreti attuativi. Niente di più: del resto, è stato l'argomento usato dal governo, non si poteva fare di più perché piegandosi troppo a sinistra si sarebbe strappato a destra con Ncd, e viceversa. «Al Senato è andata così, ma alla Camera, dove i nostri numeri sono più forti e Ncd non ha alcun potere di veto, lavoreremo per cambiare la delega», assicura il bersaniano D'Attorre. «La fiducia è una forzatura - dice Pier Luigi Bersani - ma saremo leali». Aggiunge Cesare Damiano: «la voteremo, anche se in modo critico». «Mi turo il naso e voto», si rassegna il senatore Sergio Del Giudice. Ad inveire contro Renzi, definendolo addirittura «un pericolo per la democrazia da fermare» resta il civatiano Corradino Mineo, che le prova tutte per farsi buttar fuori dal Pd da martire della libertà, per ora invano.
Il premier non pare impressionato dalle accuse di Mineo e, alla vigilia del vertice milanese sul lavoro, taglia corto: «Miglioriamo il testo se c'è da migliorare, ma il Paese deve cambiare e non ci faremo bloccare da veti o opinioni negative».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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