Incapace di rimuovere il veto dell'Ungheria, l'Europa resta incartata sull'embargo al petrolio russo. «Non posso garantire che si arrivi ad un accordo perché le posizioni sono abbastanza forti: il mio ruolo non è di assegnare le colpe a qualcuno ma di costruire il consenso», ha detto ieri l'Alto rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell. Dalla riunione dei 27 ministri è arrivata infatti un'altra fumata nera. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba conferma che il sesto pacchetto di sanzioni viene bloccato «da un solo Paese», cioè l'Ungheria di Viktor Orbán. Dal cui punto di vista «l'Occidente è in preda ad una follia suicida», come ha affermato il primo ministro ungherese nel discorso per il suo reinsediamento.
È il passo lento della politica contrapposto a quello, svelto, di chi è in affari. La matrioska valutaria di Vladimir Putin è stata adottata da almeno una ventina di compagnie europee con l'apertura di un doppio conto, in euro e rubli, presso Gazprombank. Altre 14 società sarebbero in procinto di farlo, segno che l'argine è ormai saltato. L'Eni, al momento, si pone in una posizione più defilata. Il dossier è da tempo sul tavolo, anche perché stanno per scadere contratti con Mosca e il solo modo per rinegoziarli è accettare quanto imposto dal Cremlino. Ma il Cane a sei zampe starebbe attendendo l'ultimo momento utile in attesa di eventuali provvedimenti normativi da parte delle istituzioni europee.
Di fatto, rispetto alle indicazioni fornite dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, l'adesione al meccanismo di changeover equivale a una violazione delle misure di ritorsione. Nei giorni scorsi il premier Mario Draghi ha però parlato di una «zona grigia», ovvero l'assenza di «pronunciamenti ufficiali riguardo a cosa significhi violare le sanzioni», e del fatto che «la maggior parte degli importatori di gas» è già diventata cliente della banca dello Zar Vlad. In effetti, manca ancora un documento che metta nero su bianco il perimetro entro cui è possibile operare. Il sospetto è che i ritardi accumulati dal provvedimento siano frutto delle spaccature all'interno della compagine europea. La Germania, per esempio, non ha nessun interesse ad accelerare i tempi. Fintanto che la questione non viene definita, Gazprom resta per Berlino un fornitore privilegiato. Così, se trovare la quadra per la messa al bando del greggio russo è una fatica di Sisifo, la «sete» di gas toglie dal tavolo la possibilità di allargare le sanzioni anche al metano. «Nulla è escluso in futuro, certamente io come commissario all'Economia misuro anche le conseguenze che avrebbe un rischio sulle forniture di gas, che sono più difficili da sostituire rispetto a quelle del petrolio», ha detto ieri Paolo Gentiloni. I tempi per l'affrancamento dal metano russo non sembrano del resto compatibili con le esigenze energetiche di molti Paesi del Vecchio continente. Un rapporto di Rystad Energy squaderna cifre che danno la misura del problema: nel 2021 sono entrati in Europa 155 miliardi di metri cubi di natgas russo, pari a circa il 31% delle forniture complessive. Questo polmone energetico non è sostituibile con il Gnl, il gas naturale liquefatto. «In giro non ce n'è abbastanza per soddisfare la domanda - spiega l'analisi - . Il terreno è pronto per un deficit di offerta sostenuto, prezzi elevati, volatilità estrema, mercati rialzisti e geopolitica del Gnl intensificata». Per l'Europa si prospetta quindi «un inverno duro», non essendo realistico l'obiettivo di rimpiazzare per il 66% le forniture di Mosca a fine anno in modo da ripristinare, entro il primo di novembre, gli stoccaggi dal 35% attuale all'80% della capacità.
In caso di interruzione totale dei flussi di gas dalla Russia, le riserve si esaurirebbero entro la fine dell'anno. E le conseguenze sarebbero da «day after»: prezzi triplicati, produzione industriale soggetta a rallentamenti e, in caso di inverno rigido, accensione dei termosifoni contingentata nelle nostre case.
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