Buona la prima. Anzi no. La mania di riscrivere la storia tocca anche l'alpinismo. Ci sono voluti dieci anni di studi e acribia, ma ora un giornalista tedesco, Eberhard Jurgalski, classe 1952, fondatore del sito 8000ers.com, ha lanciato quello che lui stesso non stenta a definire «una bomba». A conquistare i 14 Ottomila del pianeta non sarebbero la scarsa quarantina di super eroi accreditati fino ad oggi, ma solo tre o quattro. L'americano Ed Viestrus ed il finlandese Veikka Gustafsson non si discutono.
Uscirebbe, invece, dalla hit Reinhold Messner, da sempre considerato il «summiter per eccellenza». Lui il primo ad aver completato per primo il risiko di cime Himalayane, in 16 anni. Dal Nanga Parbat del 1970 in cui morì il fratello Guenther, al Lhotse del 1986, passando per la prima assoluta e in solitaria dell'Everest nel 1980. Fuori Messner, nella lista figura, invece, Nirmal Purja, giovane, forte e volitivo ex soldato gurkha nepalese che, dopo un rapido cursus honorum da portatore, oggi dirige una delle agenzie più accreditate di spedizioni commerciali. Due anni fa si inventò il «project possible» e scalò, con operazione mediatica e muscolare, tutti gli Ottomila in 12 mesi. Usò l'ossigeno come del resto altri summiter e incassò pure la benedizione di Messner, per un'impresa diversa e moderna. Sua e senza ossigeno anche la prima invernale al K2. Chapeau. Jurgalski non ha contatto che pochi dei summiter ancora vivi, per esempio non ha mai cercato il forte (sempre caustico) Denis Urubko. Il suo studio si basa piuttosto su foto, tecnologia e nuove misurazioni. Fino ad oggi, invece, un alpinista che volesse vedersi riconosciuta la sua impresa puntava ad un indirizzo in mezzo al caos di Kathmandu, sede dell'Himalayan data base centre. Prima che morisse, ormai 95enne, era l'arzilla Elizabeth Hawley, giunta da Chicago ormai negli anni Sessanta, la vera autorità in materia. Tutti la visitavano. Lei li «interrogava» davanti a un the, poi dava o meno l'imprimatur. Ora però arriva Jurgalski, con i suoi droni, i gps e la tecnologia.
A Messner, per esempio, mancherebbero 5 metri di dislivello e 65 circa di sviluppo sull'Annapurna. Insomma, in quel giorno del 1985, con Hans Kammerlander, i due si sarebbero fermati su una sorta di anticima. La parete Nord Ovest era inviolata. Non potevano esserci bandierine e cotillon a identificare una cima con cresta di neve, mutevole per sua natura.
«È ridicolo, non vado oltre» ha commentato, Messner, 78 anni, alla viglia del suo ultimo tour mondiale di conferenze dopo che il suo cuore chiede di rallentare. Non va meglio fra le donne: depennato il Dhaulagiri di Edurne Pasaban e il Manaslu di Gerlinde Kaltenbrunne, unica summiter in predicato sarebbe la nostra Nives Meroi che, in passato, proprio accortasi di non essere arrivata al top, ha ripetuto due Ottomila.
«Il ragionamento di Jurgalski è logico, una montagna ha una sua vetta geografica, ma mettere in discussione certe imprese o paragonare il passato ad oggi è una bestemmia». Meroi aggiunge che anche il suo Manaslu sarebbe sub iudice, ma di non aver nessuna intenzione di ripeterlo.
La storia dell'alpinismo è costellata di salite e misteri. C'è chi dichiara il dubbio, chi no, chi non può più farlo. Il Cerro torre di Cesare Maestri, il Nanga Parbat del povero Tomas Mackiewicz, lasciato lassù e morto di sfinimento forse scendendo. Hervé Barmasse ha subito dichiarato di aver mancato la cima dello Shisha Pangma per 3 metri nel 2017. Fu questione di vita o di morte e il suo fairplay gli ha fatto accreditare comunque la vetta.
Marco Confortola è atteso al varco da qualcuno per non aver prodotto abbastanza prove del suo Kangchenjunga, 12simo Ottomila in carnet.
Uno studio di qualche anno fa proponeva di contare, come si fa sulle Alpi, non tanto il massiccio, ma ogni punta oltre gli Ottomila. In quel caso il club delle 14 vette più altre della terra salirebbe a 22. E in quel caso, Messner almeno una cima dell'Annapurna l'avrebbe scalata. E gli altri avrebbero altre «gite» a cui pensare.
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