C' è stato un tempo in cui i cronisti seguivano meticolosamente i lavori delle commissioni e delle aule parlamentari. Quel tempo è finito a causa della crisi dell'editoria e della conseguente riduzione degli organici giornalistici. Un vero peccato. Si perdono, infatti, notizie, sfumature e atmosfere utili a capire l'aria che tira. Ad esempio. Chi, lo scorso giovedì sera, avesse seguito i lavori dell'aula del Senato impegnata a convertire il decreto con le ultime novità sul contrasto alla pandemia avrebbe percepito un'aria nuova. Un vento revanchista: la rivincita del Parlamento sul governo. Lo avrebbe capito non solo perché, inaspettatamente, la maggioranza dei senatori ha approvato un paio di emendamenti su cui il governo aveva dato parere contrario, ma soprattutto perché quei voti sono stati accompagnati da manifestazioni di giubilo, profluvi verbali, esplosioni di entusiasmo.
Che il potere legislativo sia stato espropriato dal potere esecutivo non è notizia odierna. È così da anni. E da anni la condizione del parlamentare presuppone una certa dose di frustrazione personale a oggi tradotta in mera rassegnazione. A rompere questa mesta monotonia è stata la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Per due ragioni. La prima è che la maggioranza dei parlamentari non ha apprezzato l'ostinazione con cui il capo del governo ha cercato di essere eletto capo dello Stato. A torto o a ragione, è stata percepita come un allentamento del senso di responsabilità che lo spinse ad accettare la carica di presidente del Consiglio e un cedimento all'ambizione personale. Questo ha umanizzato la figura di Mario Draghi, ma ha anche, e non è detto che sia un bene, incrinato il senso di onnipotenza irradiato dal suo governo. La seconda ragione sta nel discorso pronunciato da Mattarella in occasione del giuramento: un inno alla funzione sovrana del Parlamento e un invito a tutelarla nel rispetto della Costituzione.
Era piuttosto prevedibile. Lo scorso 22 novembre, temendo che una gestione irrazionale della corsa al Quirinale determinasse la crisi del governo, la misi così: «L'attuale quadro politico rischia di trovarsi nelle condizioni in cui si trovò la comunità internazionale all'alba della Prima guerra mondiale. Una guerra, fu scritto, da nessuno voluta ma da tutti preparata.
Se, come è giusto e auspicabile, il governo vuole la pace, cioè la stabilità, bisogna che temperi la frustrazione di partiti deboli e gruppi parlamentari irrequieti dando loro quel po' di soddisfazione che in fase emendativa gli spetta». Era vero a novembre, lo è ancor di più oggi.
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