Se la nona è la sinfonia terminale di Beethoven, è invece improbabile che la nona stretta con cui ieri la Bce ha alzato i tassi di un altro quarto di punto, portandoli al 4,25%, sia l'ultima. Pur se uno scarto dalla retorica a tutto tondo, aggressiva e granitica, cui l'Eurotower è da tempo abbarbicata c'è comunque stato. E non solo nelle sfumature lessicali, con l'abbandono della locuzione sul costo del denaro da portato a livelli sufficientemente restrittivi per piegare l'inflazione verso il target del 2%, ma anche nelle parole di Christine Lagarde. Che per la prima volta ha lasciato uno spiraglio alla possibilità che in settembre l'istituto di Francoforte la smetta di far la faccia feroce. Il Consiglio ha una mente aperta su quali decisioni saranno prese nei prossimi mesi. In base ai dati decideremo se alzeremo ancora i tassi o faremo una pausa, che comunque non sarà lunga. Certo non li taglierà, ha dichiarato la presidente della banca centrale. Con un'avvertenza stampigliata a chiare lettere: un'eventuale messa in stand by della politica monetaria non costituirà un impegno per i mesi successivi. Quello che si decide in settembre - ha messo le mani avanti l'ex Fmi - non è definitivo, potrebbe cambiare da un mese all'altro. Non siamo nell'ambito di una forward guidance, cioè una chiara indicazione sulle future intenzioni.
È un navigare a vista che piace, per ora, ai mercati (+2,13% Milano, +1,43% lo Stoxx600). Anche se le screziature da colomba apparse sul piumaggio da falco della Bce potrebbero presto scomparire. Mercoledì 26 luglio la Fed ha inaugurato l'era dello stop and go: al mantenimento dello status quo (in giugno) ha fatto seguito, neppure un mese dopo, un nuovo giro di vite al costo del denaro. Una mossa restrittiva legata a un'inflazione core (al netto di cibo ed energia) al 4,8%, un livello considerato ancora troppo elevato. Nell'eurozona l'inflazione di fondo è perfino più alta, al 5,4%, e sta risalendo. Con una frase non proprio felicissima, Madame Bce ha detto di voler spezzare le reni al carovita, lasciando presagire che, in assenza di un rapido ridimensionamento del caro-prezzi, l'ascia di guerra non verrà presto sotterrata.
D'altra parte, il peccato originale della Bce (mission circoscritta alla stabilità dei prezzi, con occhio orbo sulla crescita economica) è germinato dall'ossessione di quei Paesi - Germania su tutti - che prediligono un'inflazione e una spesa pubblica al guinzaglio fino al punto da tollerare derive recessive. È ciò che all'Italia non piace. È un errore continuare ad alzare i tassi - l'accusa del vicepremier Antonio Tajani - Si danneggiano imprese e famiglie e si rischia la recessione. Non solo, si fanno anche alzare i mutui. Fino al punto di terremotare la domanda di quelli ipotecari e soffocare le richieste di prestiti da parte delle imprese, sempre più restie a investire.
Francoforte non lo ammetterà mai, ma allo scopo di piegare l'inflazione puntava su un avvitamento congiunturale ben superiore a quel deterioramento dell'outlook economico a breve termine, cui ha fatto riferimento la Lagarde. I nove rialzi dei tassi hanno però lasciato segni sulla domanda interna, impattando sulla manifattura.
I servizi restano forti ma perdono slancio, ha rivelato la capa della Bce. Quello è l'ultimo argine: se cede, anche l'inflazione core comincerà a flettere. Solo così - forse - la Bce terrà le dita lontane da quel bottone nucleare che stanno diventando i tassi.
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