La proposta leghista, peraltro ritirata, di multare le desinenze al femminile (se di nuovo conio), per quanto mossa da un nobile fine è una vera stupidaggine, ma è vero che la nostra povera lingua avrebbe bisogno di essere difesa dagli ideologismi sedicenti inclusivi. Mascheroni e Roccella, se non ho capito male, esortano a lasciare che sia l'uso a prevalere, ovvero, meglio, ritengono che la lingua si difenda da sola dalle intrusioni ideologiche con annesse perversioni declinatorie. Purtroppo la nostra bella lingua ha scarsa autonomia rispetto ai parlanti. È una creaturina fragile che facilmente si sottomette alla diffusione dell'uso, anche quando questo sia aberrante. Lo dimostrano la scomparsa del congiuntivo o il suo uso scombiccherato, l'impoverimento del lessico di nobile tradizione, viceversa «arricchito» di forestierismi, barbarismi, se non di trivialismi.
Alla fine del XVI secolo nacque l'Accademia della Crusca che si assunse il compito di vegliare sulla lingua, indirizzandone l'uso a partire dalla tradizione letteraria più nobile, senza per questo trascurare il lessico colloquiale. La Crusca insomma divenne, con la sua autorevolezza, la paladina della lingua, accogliendo quando necessario le innovazioni, perché si sa la lingua è un organismo vivo e mutevole, ma anche rigettando gli abusi. Ma erano altri tempi e altre autorevolezze! Oggi siamo di fronte al tentativo di rivoluzionare forzatamente la lingua, in maniera radicale, messo in pratica da una minoranza ideologicamente compatta e agguerrita nel nome dell'inclusività. L'estensione del femminile anche quando si creino parole cacofoniche o semplicemente brutte, governa la comunicazione a tutti i livelli. L'Ordine dei giornalisti non impone l'uso del femminile, ma indirizza i suoi iscritti ad essere inclusivi. Nelle scuole e nelle università, basta un Rettore o un Dirigente che ami l'inclusività per imporre, o quanto meno caldeggiare, l'uso del femminile. Io stessa ho dovuto discutere per evitare di far definire il mio ruolo: professoressa ordinaria.
Il problema spesso è la confusione fra la declinazione del ruolo e quella della funzione personale. È ovvio che io venga chiamata professoressa, vista la consuetudine di declinare al femminile la mia funzione, mentre il ruolo non si declina e rimane «professore ordinario» senza che perciò venga messa in discussione la mia identità femminile. In certi casi modificando la declinazione del ruolo si rischia di dare all'attributo cui è legato da antica tradizione (Magnifico Rettore, Professore Ordinario /Associato) un significato grammaticale quando in realtà si tratta di una formula di funzione o di rispetto e come tale da non declinarsi. «Ordinario» attribuito a professore indica il grado di competenza scientifica nell'ambito della categoria, non ha valore aggettivale visto che esso significherebbe: consueto, normale, se non addirittura dozzinale, di «fattura grossolana». Dunque declinando indiscriminatamente si rischiano formulazioni imbarazzanti, talvolta comiche, spesso brutte. Ma veramente ancora qualcuno pensa che i pregiudizi nei confronti delle donne (che ci sono e devono essere combattuti) si possano sconfiggere brandendo la grammatica? Valenti neuroscienziati (come Andrea Moro) sono concordi nel dichiarare che la lingua non costituisca un condizionamento; Lévi-Strauss e Dumézil a loro volta hanno sottolineato il «valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del sesso».
Il resto sono opinioni, ideologicamente schierate, legittime ma non probanti e come tali non possono essere egemonizzanti facendo leva sulla indifferenza dei parlanti che si adeguano per quieto vivere, perché «i problemi veri sono altri». E allora difendiamo la nostra bella lingua usandola in maniera corretta, e soprattutto senza adagiarsi alla diffusione dell'uso «imposta» da pochi.
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