
La guerra che doveva finire in «24 ore» rischia di trascinarsi ben oltre i «primi 100 giorni» della nuova amministrazione (scadenza 30 aprile), come era poi stato promesso, aggiustando il tiro. E la proposta di un cessate il fuoco di 30 giorni fatta a Mosca e Kiev è ormai vecchia di oltre un mese, senza che se ne sia fatto nulla. Donald Trump si sta scontrando con la realtà di un conflitto che è assai più difficile da risolvere, rispetto a quanto promesso in campagna elettorale. Le aperture di credito a Vladimir Putin da parte del presidente Usa e le «punizioni», non solo retoriche, inflitte a Volodymyr Zelensky non hanno portato gli effetti sperati.
È il Wall Street Journal a rivelare che all'interno della Casa Bianca si stanno confrontando al momento due fazioni. Da un lato, il segretario di Stato Marco Rubio e l'inviato per l'Ucraina Keith Kellogg, che spingono per una linea più dura nei confronti di Mosca, scettici sulla reale volontà di pace del presidente russo. Dall'altro, il gruppo che fa capo a Steve Witkoff, l'inviato tuttofare di Trump, convintosi nei suoi incontri con Putin che anche la Russia voglia una fine rapida della guerra. Nel mezzo c'è il tycoon, che sarebbe più favorevole all'approccio di Witkoff, e che negli ultimi giorni ha prodotto una serie di dichiarazioni contraddittorie che hanno tradito il suo nervosismo. Il presidente è «frustrato con entrambe le parti», aveva chiarito la Casa Bianca, dopo che Trump era parso minacciare Putin di nuove sanzioni, a seguito dei continui attacchi missilistici russi. Una rettifica che ha avuto vita breve, alla luce del bombardamento di domenica a Sumy, dove i missili balistici di Mosca hanno prodotto 35 morti e un centinaio di feriti. Un attacco che «supera ogni linea di decenza», aveva commentato in un post Kellogg, mentre Rubio definiva la strage «orribile» e «tragica».
Le immagini provenienti da San Pietroburgo appena due giorni prima, mostravano invece un Witkoff sorridente, con la mano sul cuore, nel suo incontro con il leader russo. Uno scenario che ricalca le divisioni interne alla Casa Bianca sul fronte della «guerra dei dazi» e che rischia di logorare Trump al pari di quanto sta avvenendo nel braccio di ferro commerciale col resto del mondo. È stato un «errore», ha assicurato il presidente dopo la strage. Incalzato dai cronisti sulle responsabilità dell'«errore», il tycoon si è rifugiato nella retorica elettorale, addossando a Joe Biden la responsabilità di avere «fatto scoppiare la guerra». Ed estendendo anche agli altri due protagonisti, Zelensky e Putin, le colpe del conflitto. «Biden avrebbe potuto fermarla e Zelensky avrebbe potuto fermarla, e Putin non avrebbe mai dovuto iniziarla. La colpa è di tutti», ha detto Trump, assicurando però che «molto presto avremo delle ottime proposte». Una parziale rettifica rispetto a quando assicurava che «Putin vuole la pace», contemporaneamente accusando Zelensky di voler trascinare la guerra «senza avere le carte». Ma il tycoon, dopo quello che è apparso finora uno degli attacchi più duri sferrati al leader russo, ha preferito non spingersi oltre.
Secondo Bloomberg, gli Usa si sono rifiutati di sottoscrivere il comunicato di condanna del G7 per l'attacco a Sumy. «Stiamo lavorando per preservare lo spazio per negoziare la pace», la motivazione. La cautela di Trump potrebbe però essere presto superata dal Congresso, dove la componente anti-russa ha ancora una solida base bipartisan.
A inizio aprile è stato avviato al Senato l'iter di una legge che punta a colpire le esportazioni di petrolio e gas russi, se Mosca non concluderà la pace con Kiev. Una mossa che era stata scoraggiata, senza successo, dalla Casa Bianca.
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