Contrordine, compagni: niente nome nel simbolo. Niente candidatura a capolista in tutte e cinque le circoscrizioni: sarà solo, come previsto, al Centro e Isole. Niente (forse, ma nessuno ne è certo perché «lei non ci dice nulla») candidature random a metà lista, qui e là. Alle tre di pomeriggio, al termine di una mattinata di dubbi, consultazioni coi suoi, telefonate e rimuginamenti, Elly Schlein va in diretta su Instagram e annuncia il dietrofront. Dopo l'inaspettato ammutinamento di domenica in Direzione, dopo la pioggia di critiche e di ammonimenti e di prese di distanze, e la concreta minaccia di finire in minoranza nel voto interno, la segretaria del Pd ha capito che non era aria: spaccare il proprio partito alla vigilia del voto per scrivere «Schlein» nel logo non era esattamente una buona idea. Così, nel primo pomeriggio, compare via social e la disconosce: «In Direzione si è parlato della proposta di inserire il mio nome nel logo elettorale», dice, facendo un po'la vaga, come se il lampo di genio fosse venuto ad altri. «Ringrazio chi ha fatto quella proposta, ma il contributo migliore a questa squadra lo posso dare correndo assieme alla lista. Questa proposta mi è sembrata più divisiva che rafforzativa». Il simbolo, spiega, verrà di lì a poco depositato e avrà al suo interno solo un richiamo alla famiglia europea del Pse. Schlein insomma, vista l'insurrezione interna, prova a disconoscere persino la paternità (o maternità che dir si voglia) dell'idea, scaricandola sul povero Stefano Bonaccini, presidente del Pd e capo della minoranza interna, cui due giorni prima aveva chiesto di lanciarla. E, è il sospetto di molti, si lascia una via di fuga: «Se il 9 giugno le cose andranno male - dice un dirigente - vedrete che Elly si vendicherà gettando la colpa su tutti quelli che si sono opposti al suo nome nel logo: non mi avete voluta? E ora ne vedete il risultato».
Quanto però avrebbe potuto pesare quell'innovazione, nessuno lo sa: «Ma come si fa a gestire in questo modo una partita così cruciale? Senza discussione, senza confronto, senza uno straccio di analisi o di sondaggio per spiegare il fantomatico 'valore aggiunto' del suo nome, mettendosi d'accordo di nascosto con un paio di 'cacicchi' a colpi di concessioni, scambi e posti in lista?», si chiedono in molti. Schlein però esalta la straordinaria armonia e compattezza del Pd: «Abbiamo vissuto stagioni in cui la composizione delle liste è stata più sofferta e traumatica, invece questa l'abbiamo costruita insieme, ci siamo presi per mano». Poi decanta le candidature da lei scelte: dal «volto delle Sardine» Jasmine Cristallo al «fautore di pace» Marco Tarquinio, ex giornalista ruiniano e anti-abortista imposto dalla potente comunità di Sant'Egidio, e appassionato sponsor dell'abbandono dell'Ucraina ai voleri di Putin, all'ex medico di Lampedusa ed europarlamentare Pietro Bartolo. Che nel frattempo però minaccia di andarsene, perché candidato in posizione non eleggibile. Ringrazia Nicola Zingaretti «per aver ceduto alle mie insistenze: abbiamo bisogno in Europa di chi sa amministrare», e tutti gli altri.
L'unico che abbozza una difesa della scombiccherata regia della faccenda, pur dicendo di «non condividere» la trovata del simbolo, è il povero Pierluigi Bersani: «Schlein si è messa al servizio delle liste, non è che dà l'idea di un comando o di una corsa solitaria. Si è messa là dove c'era bisogno e, quindi, nell'insieme ha dato il segno di una volontà di combattere uniti». Nell'insieme.
Mentre il commento più spietato arriva da Lorenza Bonaccorsi, già parlamentare gentiloniana e oggi «sindaca» del cruciale primo Municipio di Roma: «Dopo mezz'ora di diretta Instagram sulla vicenda del simbolo non si sa se ha fatto più brutta figura Schlein oppure Bonaccini».
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