Se a tremare è il buonsenso

A lasciare attoniti non è l'errore giuridico, che pure si intravvede nelle pieghe della sentenza che ha dato ai morti dell'Aquila la colpa della loro morte

Se a tremare è il buonsenso

A lasciare attoniti non è l'errore giuridico, che pure si intravvede nelle pieghe della sentenza che ha dato ai morti dell'Aquila la colpa della loro morte. Gli errori accadono, il diritto non è una scienza esatta, si può confidare che tra Appello e Cassazione altri giudici mettano le cose a posto. E nemmeno è una questione di soldi, del taglio dei risarcimenti che il giudice, dando alle vittime una parte della colpa, ha concesso ai familiari: tanto è ovvio che nessun milione lenirà mai il loro strazio. A lasciare sgomenti è altro: ed è, duole dirlo, un male atavico di parte della magistratura italiana. Questo male è la distanza dal comune buon senso, dalla logica della gente qualunque, il banale pensare dell'uomo della strada: insomma dal sostrato di cui siamo tutti fatti, e da cui nessuna giurisprudenza - per raffinata che sia - può prescindere, se vuole continuare a essere parte del vivere civile. Non si tratta, come liquiderebbero la faccenda certi soloni in toga, di farsi dettare le sentenze dalla piazza, di proclamare verdetti a furor di popolo. Si tratta di fare vivere il diritto nella società che lo produce e che in esso deve riconoscersi. E che mai e poi mai potrà dare - nemmeno in parte infinitesimale - ai ventisette morti, tra cui tanti ragazzi, della casa di via Campo di Fossa la colpa della loro sorte. La sentenza, con piglio da ragioniere, quantifica nel 30 per cento della colpa totale quella spettante a chi è rimasto sotto le macerie. Se anche fosse il venti, il dieci o l'uno per cento non cambierebbe niente. Il risultato è scaricare su gente che nulla sapeva di edilizia e di terremoti la responsabilità di non avere abbandonato la casa. Di avere cioè dato retta alla Commissione Grandi Rischi, quelli che le cose dovevano saperle per forza, e che in quelle ore spiegavano che tutto andava bene, e che anzi le scosse continue erano un buon segno, perché la bestia sottoterra si sfogava e perdeva d'energia; di avere creduto di abitare in una casa degna di questo nome, non in un castello di farina pronto a sfaldarsi mentre le case vicine si crepavano appena. Il concorso di colpa si dà in genere alle vittime incoscienti o irresponsabili: esempio classico, al motociclista che guida senza casco, viene centrato e perde la vita. Ma cosa c'era di irresponsabile nel comportamento della madre che era restata lì con i suoi due figli, sicura di essere al sicuro? Li ritrovarono dopo due giorni, lei abbracciata a proteggerli. Oggi un giudice le manda a dire, là dove si trova: è stata anche colpa tua. Lo stesso messaggio manda a Ilaria e Paolo, che erano fidanzati e morirono insieme nel crollo.

«Tanto, mamma, io credo ai capoccioni che si sono riuniti all'Aquila»: questo aveva detto Ilaria a sua madre, in una delle ultime telefonate, spiegando che sarebbe rimasta lì, a studiare, anziché tornare a casa. Aveva dato retta ai «capoccioni». In fondo è questa la colpa postuma che il giudice le rifila: avere creduto allo Stato, agli esperti, alle autorità preposte. Che sia un magistrato a dirlo è francamente incredibile.

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