La sfida di Xi al Tibet: promette benessere e chiede sottomissione

Il presidente sventola la carta del progresso ma chiede l'adattamento al comunismo

La sfida di Xi al Tibet: promette benessere e chiede sottomissione

Nessun tibetano, quinte colonne del regime a parte, ne sentiva la mancanza, ma il presidente cinese Xi Jinping ha voluto tornarci. Ha rimesso piede nel Tibet a dieci anni dalla precedente visita compiuta quando era ancora il vice di quel Hu Jintao che lo precedette alla guida del paese. Ancora una volta ha voluto farlo nell'anniversario dell'invasione e dell'infamante «accordo dei 17 punti» imposto con la forza delle armi al Dalai Lama e alle altre autorità tibetane nel lontano 1951. Un'occupazione lunga 70 anni ricordata oggi con l'ipocrita e untuoso eufemismo di «pacifica liberazione». A cui seguì la fallita rivolta del '59 repressa nel sangue dalle truppe di Pechino, che uccisero non meno di 65mila tibetani deportandone altri 70mila. Il tutto mentre il Dalai Lama era costretto a fuga ed esilio in India insieme al suo governo e ai suoi monaci.

A 62 anni da quegli orrori il viaggio di Xi Jinping, atterrato a Nyingchi nel sud est del paese, per poi raggiungere i 3656 metri dell'altipiano di Lhasa a bordo d'una modernissima ferrovia d'alta quota, assume un doppio significato. Segna una tappa importante nel processo di repressione interna e di totale assoggettamento delle minoranze avviato dopo la rivolta, nel 2008, dei monaci tibetani. Un processo proseguito con la deportazione delle minoranze musulmane nello Xinjiang e la cancellazione di qualsiasi barlume di democrazia a Hong Kong. Di quello spietato processo Xi è l'indiscusso ideologo e demiurgo.

Ma la visita nel Tibet punta anche a mostrare il doppio volto dell'egemonia comunista. Da una parte Xi non si vergogna di esibire l'arroganza del proprio potere visitando, con un atto di sfida, il Potala Palace di Lhasa residenza, fino al 1959, del Dalai Lama. Dall'altra fa intendere di esser pronto a ripagare con «progresso» e «benessere» la pronta e puntuale accettazione dei diktat imposti dal partito Comunista.

Il progresso è quello dei treni ad alta velocità progettati e messi in opera negli ultimi 15 anni parallelamente alla capillare opera di pulizia dei servizi di sicurezza impegnati ad arrestare torturare e incarcerare tutti i protagonisti delle proteste del 2008. Il benessere è, invece, quello regalato alla regione dalle frotte di turisti in grado di viaggiare a migliaia sui nuovi treni ad alta velocità. Un turismo che da una parte porta soldi, ma dall'altra contribuisce, per la gioia di Pechino, a cancellare tradizioni e vestigia del passato. «Tutte le regioni e le genti di tutte le etnie in Tibet marceranno verso una vita felice», promette il presidente.

Ma la «marcia felice» promessa da Xi non riguarda solo i tibetani piegati con la forza dopo la rivolta del 2008. È il sinonimo della volontaria e consapevole sottomissione offerta, o imposta, anche ai musulmani dello Xinjang e ai nostalgici della democrazia di Hong Kong. Quel «bastone» - fa intendere Xi Jinping - si trasformerà - come nel Tibet- in fruttuosa e ricca «carota» non appena i sudditi rinunceranno alla propria libertà e alla propria identità. Un concetto ribadito, ieri, sul «South China Morning Post» anche da Junfei Wu, vice direttore del Tianda Institute, un centro studi di Hong Kong: «L'adattamento del buddismo tibetano alla società socialista» e il rafforzamento dell'unità etnica, con la promozione di un'educazione ideologica, sono le priorità a cui punta il presidente Xi in Tibet.

La sinizzazione delle religioni - ha spiegato l'analista - è già un pietra angolare della politica religiosa del governo centrale indispensabile per forgiare quell'identità cinese comune portata avanti non solo in Tibet, ma anche in Xinjiang e Mongolia Interna». E non da ultimo, aggiungiamo noi, nelle chiese e nelle comunità cristiane condannate all'assoggettamento attraverso l'accettazione dei controlli imposti dal partito.

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