"In Italia smart working approssimativo. Aumenta lo stress, non la produttività"

"Il Covid ha cambiato le dinamiche lavorative e oggi chiamiamo smart working qualcosa che non lo è"

"In Italia smart working approssimativo. Aumenta lo stress, non la produttività"

«Il Covid ha cambiato le dinamiche lavorative e oggi chiamiamo smart working qualcosa che non lo è».

Difficile dire se la modalità di «lavoro agile», fatto nove volte su dieci da casa, abbia o meno aumentato la produttività. Per Luca Pesenti, professore associato di Sociologia all'Università Cattolica del Sacro Cuore, autore di un libro sul tema scritto insieme al professor Giovanni Scansano in uscita a novembre, il cammino intrapreso dalle aziende in fretta e furia e accettato con iniziale entusiasmo da parte dei lavoratori, è lontano dallo smart working ed è rivedibile sotto molti aspetti.

Professor Pesenti lei avanza dubbi sull'utilità dello smart working. Perché?

«Il problema è legato al fatto che c'è stata un'ondata retorica che oggi chiama smart working qualcosa che ci somiglia solo e rischia di complicare il punto di vista rispetto a questa nuova risorsa. Non è cambiando scrivania e spostandola a casa che si ottengono buoni risultati».

Si spieghi meglio...

«Per far funzionare questo strumento servono tre cose. Innanzitutto le aziende devono organizzare e riorganizzare il lavoro in base a obiettivi e non solo concedere ai dipendenti di operare in luoghi differenti da quello in cui prestavano servizio. Servono poi contratti a tutela dei lavoratori. Ma soprattutto lo smart working deve corrispondere al bisogno della persona. L'azienda dovrebbe tracciare alcune modalità e ognuno dovrebbe poter decidere liberamente se e come aderire in base alla propria organizzazione di vita».

Però alcuni studi, come Marketers State of Remote Working 2021 promosso da Marketers, il più grande movimento di imprenditori digitali, hanno dimostrato che con lo smart working aumenta la produttività. Non è d'accordo?

«Su questo argomento la letteratura internazionale ci fornisce un quadro di luci e ombre. Se non si programma il lavoro, come si faceva in ufficio, stabilendo le ore da fare a casa o altrove in maniera netta, si potrebbe magari ottenere maggior profitto perché ad esempio una persona lavora per un arco temporale maggiore rispetto al passato e questo potrebbe provocare stress».

Quale è allora secondo lei la formula affinché questa nuova tipologia di lavoro diventi realmente una risorsa?

«A oggi manca l'elemento fondamentale: la libertà e volontarietà del lavoratore di scegliere. Deve essere messo in condizione, lo ripeto, di decidere se prestare il suo impegno in ufficio o azienda o da fuori.

In quest'ultimo caso i datori di lavoro devono mettere i dipendenti nelle condizioni di operare bene, con le tutele e gli strumenti necessari. A quel punto si potrà capire se il modello funziona. Ma ci vuole tempo per tirare le somme».

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