Stop, rinvii e bocciature: segnali di un "deep state" che fa la vera opposizione

Dalle toghe alle alte burocrazie statali. Una ragnatela imbriglia l'esecutivo

Stop, rinvii e bocciature: segnali di un "deep state" che fa la vera opposizione
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È un susseguirsi di stop, di distinguo, di rinvii. Dal Tribunale di Roma che si rivolge alla Corte europea dopo aver bocciato i rimpatri nei paesi di origine dal centro in Albania, al Tar che boccia il provvedimento di Salvini per precettare i lavoratori dei trasporti pubblici coinvolti nello sciopero generale. Ed ancora, la Cassazione che in contraddizione con la sentenza della Consulta riapre la strada al referendum che propone di abrogare per intero la riforma dell'Autonomia per mettere un macigno sulla strada del governo. E in fondo anche le dimissioni del direttore dell'Agenzia delle Entrate, Ernesto Ruffini, che se ne va sbattendo la porta di fatto si arruola nello schieramento avverso con un'accusa che già un sapore elettorale: «È cambiato il clima, la lotta all'evasione sembra una colpa».

Si dice che una coincidenza sia una coincidenza, due un indizio e tre una prova. Qui siamo arrivati in una settimana a quattro e dall'aria che tira nessuno si meraviglierebbe se nei prossimi giorni episodi del genere si moltiplicassero. Ma al di là delle singole battaglie la verità è più complessa: di fatto la magistratura, la burocrazia o, per coniare una nuova espressione «il deep state» istituzionale, si stanno mobilitando contro l'esecutivo. La scusa ricorrente è che l'attuale classe dirigente non sappia scrivere le leggi e non rispetti le regole. Una tesi talmente abusata nei casi più svariati da somigliare tanto ad uno slogan elettorale per quando si tornerà a votare.

Si tenta instillare nell'immaginario collettivo l'idea che il governo di centro-destra sia una banda di incapaci solo perché tenta di governare quel ginepraio che è la nostra macchina statale. Insomma, si usano le interpretazioni di norme, commi, provvedimenti come armi contundenti contro l'esecutivo. Avvolgendo una battaglia di Potere, essenzialmente politica, con un manto di retorica: accusando il governo che non conoscere il diritto, di ignorare la Costituzione, e addirittura (vedi il non detto di Ruffini) di aiutare l'evasione.

Ed è una battaglia rischiosa quanto prevedibile perché il «deep state» istituzionale è ben più insidioso di questa opposizione: se gli togli i privilegi o gli rivoluzioni la vita è capace di tutto. Prendiamo ad esempio i magistrati a cui non va giù la proposta della separazione delle carriere tra giudici e Pm. Riforma sacrosanta ma che cambia il loro mondo. Ragion per cui c'è la guerriglia dei magistrati in ruolo, ma anche di quelli fuori-ruolo che non sono pochi e occupano posizioni di rilievo nei gangli dello Stato: sono in duecento, di cui cento nel solo ministero di grazia e giustizia, gli altri distribuiti negli altri dicasteri in posizioni apicali come capi di gabinetto o capi degli uffici legislativi; ed ancora nelle commissioni parlamentari, nelle authority, nelle ambasciate. A questi si aggiungono i giudici amministrativi chiamati ad altri incarichi, i più disparati. Una ragnatela capace di imbrigliare, di ritardare, magari bloccare qualsiasi provvedimento. «Per una delega della Cartabia - racconta Enrico Costa, gran conoscitore di questa giungla - il governo aveva immaginato di portarli da 200 a 180. Poi ha soprasseduto perché correva il rischio di doverli aumentare il numero».

Fin qui i magistrati. Ma ci sono altre categorie di burocrati di carriera, di funzionari parlamentari, di dirigenti di ministeri che possono essere arruolati a ragione nel «deep state» istituzionale. Professionalità non toccate dallo spoil system, arrivate nei loro ruoli in altre stagioni politiche.

La politica dovrebbe ragionare di questi meccanismi che bloccano o ritardano ogni tipo di riforma.

Spesso, invece, ne mutuano i metodi: Renzi presenta una denuncia alla Corte dei Conti per quelli che considera sprechi, cioè l'andirivieni di navi militari con il centro per migranti in Albania, e tira in ballo Arianna Meloni nella vicenda Sangiuliano; la risposta è un emendamento di Fratelli d'Italia voluto dalla Premier d'impronta populista fatto su misura per colpire le finanze personali del leader di Italia Viva: impedisce, infatti, a chi è in politica incarichi retribuiti per oltre 50 mila euro verso soggetti pubblici o privati fuori dall'Unione Europea (nel caso di Renzi le conferenze negli Stati Uniti, in Cina o Arabia Saudita). Chi non rispetta il divieto rischia un prelievo forzoso nel proprio conto corrente. Anche la politica, purtroppo, si è trasformata in uno scontro di emendamenti, querele, regole, norme e commi. In una guerriglia.

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