Lo strazio di Israele per i suoi ostaggi. Ma il salvacondotto a Sinwar non risolve

Netanyahu all'angolo, pressato dalle richieste di un'intesa. Il leader di Hamas non accetterà il "corridoio speciale"

Lo strazio di Israele per i suoi ostaggi. Ma il salvacondotto a Sinwar non risolve
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La ricerca delle soluzioni per salvare i rapiti tramite un corridoio speciale per Sinwar, probabilmente suscita nel capo di Hamas una buona dose di ironia e di ottimo umore, anche se è davvero improbabile: secondo quanto riportato da Bloomberg potrebbe lasciare la Striscia mentre tutti gli ostaggi vengono liberati. Irrealistico, ma sintomatico che si parli di questa possibilità. Ma Sinwar vuole, restando da comandante a Gaza, riuscire a battere Israele costringendolo a uscire dal suo territorio a ogni costo. Quindi l'idea irrealistica riportata da Gal Hirsh, il responsabile del governo per i rapiti, dice solo che Israele è pronta a tutto per salvare gli ostaggi, i chatufim. Ci si adopera per sfondare la diabolica trappola che dal primo giorno attanaglia Israele: in cambio di un'ipotesi fantasma si seguita a ripetere che Israele deve andare a un accordo, del tutto sconveniente per Sinwar, che appena fosse privo della sua corona di carne umana diventerebbe il generale di un esercito sconfitto ormai da tempo. Un bersaglio.

Esiste, anch'essa senza la promessa sicura di lasciare andare i rapiti, soltanto la richiesta di Hamas di una totale fuoriuscita di Israele, quella che in slang pacifista viene chiamato «cessate il fuoco», ma potrebbe chiamarsi resa; l'idea che lasciandogli la Striscia nelle mani con in più la consegna di un numero spropositato di prigionieri palestinesi, Hamas accetterebbe intanto una prima fase in cui si consegnano gli ostaggi «umanitari». Netanyahu, rispetto alla famosa questione dello «tzir Filadelfi» che secondo la leggenda corrente non cederebbe a nessun costo, ha invece già fatto sapere che dopo la buona soluzione della prima fase, potrebbe con accorgimenti e suddivisioni di responsabilità fra alleati, essere lasciata.

Ma chi lo ascolta? In questi giorni il primo ministro è l'obiettivo numero uno della disperazione e della rabbia per i rapiti, strumentalizzata dai nemici politici. Passa da una visita di parenti all'altra, si piega agli attacchi personali e agli insulti più duri, pallido e affaticato, senza mai abbandonare il punto che non può consegnare a Hamas dieci milioni di israeliani. Viene ormai visto, e lui lo sa bene, come un crudele politicante preda dei suoi disegni di sopravvivenza. I suoi accusatori a volte sembrano dimenticare che non è Netanyahu a tenere rinchiusi i rapiti, ma Sinwar; non è lui a ucciderli, né lui a torturarli. Hamas, come il suo documento strategico pubblicato su Bild rivela, traccia la sua linea di vittoria nella spaccatura della società israeliana: le disperate grida di rabbia contro il premier, rischiano di aiutare Hamas. La strada dell'incrudelimento, dell'assassinio, dei video e delle notizie terrificanti, paga. Israele si sta battendo su tutti i fronti, a Gaza nel West Bank, al confine col Libano.

I soldati e i cittadini vivono una situazione di scontro quotidiano e com'era logico dopo il ritrovamento dei corpi di sei rapiti, la società è in preda una crisi di nervi. Il portavoce dell'esercito Daniel Hagari si è calato nel buco orrendo in cui sono stati detenuti e poi ammazzati a colpi di fucile Hersh Goldberg Polin, Eden Yerushalmi, Carmel Gat, Ori Danino, Almog Sarusi, Alex Lobanov. Da una stanza per bambini decorata con Topolino è sceso nel ventre della terra lungo tre lunghe scale a pioli e poi ha trasmesso da un lungo corridoio senz'aria né luce, in cui è impossibile stare eretti, con bottiglie di urina e un secchio per i bisogni, qualche bottigla d'acqua per bere e lavarsi, la stessa acqua, un po' di cibo secco, panni da donna a terra, un corano, una scacchiera, armi e sangue dei sei giovani. Hagari ha detto che i prigionieri erano ridotti a un peso minimale, sui trenta chili come ad Auschwitz, hanno cercato negli ultimi momenti di difendersi gli uni con gli altri. Erano sopravvissuti 11 mesi oltre ogni immaginabile sofferenza a Rafah. Proprio il luogo da cui le proibizioni occidentali hanno tenuto lontano Israele per mesi.

Adesso il seguito della vicenda è quella che mostra quanto

Israele sia ancorata a un passato in cui il nemico era un fattore secondario, e lo sforzo per la pace e il benessere era destinato a vincere su tutto. Il 7 ottobre ha insegnato una lezione che ancora non si è appresa del tutto.

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