Era difficile far cambiare idea a Nancy Pelosi. E infatti, nessuno c'è riuscito. La speaker della Camera metterà quasi certamente piede sull'isola di Taiwan, con fastidio di Pechino e dell'amministrazione Biden, che fino all'ultimo ha tentato di dissuaderla dal rinunciare a un palcoscenico che non avrebbe fatto altro che amplificare le tensioni tra le due superpotenze, in un momento in cui gli Usa puntavano al mantenimento dello status quo col grande rivale asiatico. Attentamente monitorate con tanto di diretta sui social media dei movimenti radar del suo aereo, in volo sui cieli dell'Asia, le mosse della Pelosi sono state precedute dai rabbiosi avvertimenti di Pechino, in una preoccupante escalation retorica. «Non resteremo a guardare», la prima salva. Poi, la minaccia di «contromisure decise e forti». E ancora, un definitivo «lasciatela pure andare, ma pregate per lei», affidato a un tweet del giornalista Hu Xijin, ex direttore del quotidiano cinese Global Times, che un paio di giorni fa aveva anche suggerito l'idea (tweet poi cancellato) di abbattere l'aereo della speaker della Camera, terza carica istituzionale degli Stati Uniti. Il tutto, condito con un video propagandistico nel quale l'Esercito Popolare mostrava i muscoli.
Abbastanza per costringere la Casa Bianca a replicare con toni altrettanto robusti. «Non ci facciamo intimidire dalle minacce cinesi», ha detto subito ai media il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, John Kirby. Lo stesso Kirby, dal podio della sala stampa della Casa Bianca, dopo le indiscrezioni dei media che davano ormai per certo l'arrivo a Taiwan della Pelosi per la serata di oggi e il giorno successivo l'incontro con la presidente Tsai Ing-wen, spiegava che era un «suo diritto» visitare l'isola e che «non c'è ragione» perché Pechino trasformi questa questione in un «conflitto» o la usi come «pretesto» per aumentare le sue attività militari nell'area. Di fatto, una conferma della visita.
Pechino, senza curarsi troppo degli inviti alla prudenza, annunciava invece nuove esercitazioni nel Mar Cinese Meridionale e nel golfo di Bohai, nel Mar Giallo, vietando l'ingresso in quelle acque ad altre navi. Contemporaneamente il Pentagono, secondo i media di Taipei, muoveva in prossimità di Taiwan, nel Mar delle Filippine, la portaerei Ronald Reagan e il relativo gruppo d'attacco come parte del «dispositivo di protezione» da dispiegare attorno alla Pelosi e alla delegazione Usa.
«Giochi di guerra» dalle conseguenze imprevedibili, dei quali probabilmente sia Washington sia Pechino avrebbero volentieri fatto a meno, se è vero che almeno da parte Usa ad aprile era stata accolta con un certo sollievo la notizia che la Pelosi, positiva al Covid, aveva rinunciato alla annunciata visita nell'isola. Salvo riprendere poi il suo progetto. Joe Biden, alle prese con una ricaduta del Covid, ha cercato di tenersi lontano dalle tensioni, dopo essersi lasciato scappare, nelle scorse settimane, che «secondo i militari la visita non è una buona idea in questo momento». E in effetti, il momento non potrebbe essere il meno indicato. Proprio Biden è reduce da una telefonata, la scorsa settimana, con il presidente cinese Xi Jinping. Un tentativo di riavvicinamento tra Washington e Pechino trasformatosi in un palcoscenico per Xi per ribadire le minacce cinesi nel caso la Pelosi mettesse piede a Taiwan: «Chi gioca col fuoco, finisce per bruciarsi». A poco erano servite le rassicurazioni di Biden sul fatto che la politica Usa dell'Unica Cina «non era cambiata».
Washington sa bene che Xi è alle prese con un calo di popolarità a causa del rallentamento dell'economia e dei ripetuti lockdown draconiani imposti a causa del Covid e potrebbe puntare proprio su un «incidente» nello Stretto di Taiwan per recuperare consensi in vista del prossimo Congresso del Partito comunista, che dovrebbe consacrarlo per la terza volta alla guida della Cina.
C'è poi la questione Ucraina. La Casa Bianca apprezza il fatto che Pechino, pur rifiutando di condannare apertamente la Russia, non abbia finora fornito aiuti militari diretto o indiretti a Mosca.
Soprattutto, che dall'inizio della guerra, per calcolo o per timore delle sanzioni, i cinesi abbiano congelato qualsiasi investimento in Russia, indebolendo così la macchina bellica di Vladimir Putin. Uno status quo che gli Usa vorrebbero preservare ma che potrebbe saltare a causa della «provocazione» della Pelosi.
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