Lo smart working non è un'opzione, ma la nuova dimensione del lavoro da cui non si torna indietro. Affinché sia migliore del full time in ufficio bisogna preservare e alimentare le relazioni interpersonali perché da lì deriva il valore, specie pensando che a breve le routine saranno affidate al computer. Nei mesi del lockdown il remote working, come è più corretto definirlo, ha funzionato molto bene grazie alla tecnologia e soprattutto al capitale umano, il senso del dovere e lo spirito di squadra costruiti in anni di convivenza alle scrivanie, in mensa e alla macchinetta del caffè. Nessun controllo ma tanta fiducia reciproca. Ognuno era il capo di se stesso, con autonomia e flessibilità, dove le pause per cucinare o aiutare un figlio venivano poi recuperate in serata. A questo non vogliono rinunciare i lavoratori e neppure le aziende, che risparmiano sui costi degli uffici. Tutte le organizzazioni sono orientate a far tornare le persone in ufficio due/tre giorni a settimana, con postazioni libere e secondo turnazioni variabili. Così sarà.
Dunque, la sfida è far funzionare il meccanismo nel lungo periodo, avendo chiaro che l'ingrediente chiave, le relazioni umane, deriva proprio da ciò a cui si sta per rinunciare: la vita quotidiana insieme. Quest'anno importanti aziende nazionali e multinazionali, tra cui Arval, Continental, Dentsply Sirona, Escargo, Mapfre e Viasat, hanno partecipato a un progetto coordinato dalla Società del Marketing, teso a capire quali leve attivare per trasformare un'esperienza positiva di mesi in un meccanismo virtuoso nel tempo lungo. Queste alcune delle indicazioni emerse.
L'autonomia che i dipendenti hanno assaggiato sapeva di buono e vogliono tenersela, ma occorre canalizzarla e saperla gestire affinché non si trasformi in anarchia. Se non con la presenza fisica, andranno cercati nuovi indicatori per misurare la performance. Tempo in ufficio bisognerà spenderlo comunque, non per produrre ma proprio per lavorare insieme e alimentare le relazioni personali, smussare i piccoli problemi, far crescere le competenze con gli scambi e alimentare la cultura d'impresa. Poi, bisognerà dire al dipendente in modo esplicito e articolato cosa deve andare a fare in ufficio in quei giorni, altrimenti per lui sarà un inutile spreco di tempo.
Ecco che diventa chiave la funzione del capo intermedio, l'ex capufficio. Non più una figura apicale che dà indicazioni, tipo coach a bordo campo, ma elemento centrale del team, un play maker che smista e agevola gli scambi e l'avanzamento dei processi. Sono loro i gangli dell'organizzazione e devono adattare il modo di lavorare, per fluidificare l'operato dei singoli ed evitare il sorgere di problemi, altrimenti finiranno per trasformarsi essi stessi in un problema. Quando una squadra non gira è quello a bordo campo a saltare, non il regista.
Per fluidificare e dare speditezza ed efficacia ai processi, i valori vincenti saranno l'agilità delle persone di fronte ai problemi, la performance da realizzare, la professionalità e la motivazione del singolo. Funziona invece sempre meno il comando fondato sulla gerarchia, come pure si rivelano poco efficaci la burocrazia e le sovrastrutture, che rallentano e appesantiscono gli sforzi operativi.
In conclusione, ciò che le organizzazioni
hanno davanti è più una sfida che un nuovo modello già definito. Certo, ci sono la tecnologia e l'accordo per il nuovo schema casa-più-ufficio, ma la filosofia e gli strumenti operativi sono tutti in via di sperimentazione.
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