Il dolore dei familiari dei cinque operai uccisi da un treno in corsa mentre lavoravano sui binari della ferrovia di Brandizzo, nel Torinese, è reso ancora più straziante dall'impossibilità di poter dar loro un ultimo saluto. Il via vai alla camera mortuaria dell'ospedale di Chivasso, dove sono custoditi i resti delle vittime, è costante. I parenti hanno chiesto di poter vedere i propri cari ma un'equipe specializzata di medici che li segue in questo travagliato percorso li ha convinti ad aspettare ancora qualche giorno per evitare ai familiari lo spettacolo orribile di come il treno lanciato a oltre cento chilometri orari abbia dilaniato i corpi dei loro cari. Proprio per ricomporre i corpi, la Procura ha schierato una squadra di anatomopatologi dell'ospedale di Chivasso ma non sarà facile attribuire a ciascuna vittima i reperti ritrovati sul luogo dell'incidente, disseminati lungo due chilometri di rotaie. Alcuni saranno individuati attraverso la prova comparativa del Dna, per altri non sarà possibile, cosi è stato chiesto aiuto ai familiari. Anche solo un piccolo particolare può essere importante: tatuaggi e cicatrici, radiografie che certificano fratture o impianti dentari, indizi utili per ricostruire le identità delle vittime, così da poterle consegnare alle famiglie e consentire alla Procura di dare il nulla osta per le esequie.
È sul protocollo di sicurezza che indaga la Procura per accertare cosa non ha funzionato quella notte. La chiave della catena di errori sta nelle ultime drammatiche tre telefonate, nelle quali non sarebbe stato concesso nessun nulla osta all'inizio dei lavori. Nelle prime due, a partire dalle 23.30, uno dei due indagati, Antonio Massa, 46 anni, scorta per conto di Rfi della squadra di operai, chiede l'autorizzazione al via. Da Chivasso gli dicono «no», rinviano, «deve ancora passare un treno». Il punto potrebbe essere quale treno. In programma erano tre: l'ultimo di linea, uno che doveva trasportare vagoni da Alessandria a Torino e un terzo, previsto verso l'1.30. Alle 23,30 il primo ha già fatto il suo percorso. Il secondo no, è in ritardo, ma non è chiaro se il tecnico Rfi l'abbia confuso col precedente. Perché scende sui binari col capocantiere Andrea Girardin Gibin, 52 anni, l'altro indagato, e con i cinque operai. Dalla centrale gli ripetono che avrà due finestre per lavorare: tra il secondo e il terzo treno, oppure dopo il terzo e ribadiscono: «State fermi». Una terza telefonata registra il boato, la frenata, le urla. Ci sono altre due chiamate successive, a strage compiuta.
Secondo la procuratrice capo di Ivrea Gabriella Viglione «gli interrogatori dei due indagati al momento non sono programmati. Vedremo eventuali istanze, ma per ora dobbiamo approfondire la documentazione raccolta». Insomma, a meno di richieste da parte dei legali degli indagati, gli interrogatori non saranno immediati. Prematuro ipotizzare altri indagati. Si indaga anche sui sistemi di controllo che lungo quella tratta ci sono, ma quella sera non hanno funzionato.
Dagli ultimi riscontri pare non fosse stata usata la piattina, uno strumento che posizionato sul binario fa scattare il semaforo rosso. Ma quella maledetta sera il semaforo era verde ed il passaggio del treno ha falciato cinque vite.
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